venerdì 27 luglio 2012

26 luglio, Day 2. Narghilè e Bazar.

    Svegliarsi con una cameriera filippina ch'entra senza bussare, ritentare di addormentarsi ed infine risvegliarsi con un cameriere filippino che rientra senza bussare. Facciamo il check-out, prendiamo i valigioni e li affidiamo alla reception, sbuchiamo nel caldo umido dal sapore di palude che ci bastona facendoci dimenticare l'aria condizionata del “Wow Istanbul Hotel” per chiamare un taxi che ci varrà i risparmi per la nostra pensione.
      Dobbiamo cacciare ben 40 lire turche per tornare in centro, ma direi che un giro ad Istanbul non se lo negherebbe neppure Mafalda incarognita. Ci facciamo scaricare al Gran Bazar Market, ovvero un favoloso labirinto dove potrete trovare ogni genere di oggetto, cibo, vestito, cianfrusaglia, souvenir pacchiano e oggetto per la vostra casa turca. Un antico porticato chiuso colmo di negozietti in fila, come una scia di colori oro, rosso e bronzo infarciti da un sapore di curry e cumino nell'aria. Banchi di dolciumi 10 mila calorie, narghilè opere d'arte artigianali, foulard che sventolano al vento caldo carichi dei profumi del porto simile ad un acquario pieno di navi merci.
     Il labirinturco si divide in quartieri vendenti articoli uguali ma in tutte le salse possibili immaginabili: così incontriamo la strada dei cappelli, dei lavoratori del rame e dell'ottone, degli speziali dall'aria furba, dei gestori di bagni pubblici a pagamento senza carta igienica ma con turche e rubinetti ad altezza ventre, di lampadari in vetro colorato degno di un sogno da “Le mille ed una notte”. A sorvegliare il tutto, dei poliziotti con la pancetta e la pistola, cotti dal caldo e annoiati dal loro lavoro. Mangiamo nel quartiere dell'ottone un petto di pollo gigante ed un'orata del Bosforo -o forse no- entrambe grigliate, accompagnate da riso, verdure, mezza cipolla al cubo tagliata sul diametro, ed un terribile caffè turco che ci rovina la giornata. Non bastano 6 confezioni d'acqua monodose a placare un salmastro sapore di sete che ci annebbia i sensi.
     Fermiamo un taxi in mezzo la strada con far d'Indiana Jones fuori contesto, contrattiamo inutilmente un viaggio in taxi ricevendo una banale risposta che nega i nostri sogni di trattativa da bazar: “c'è il tassometro, il prezzo lo decide lui”. Spendiamo solo 35 lire risparmiando qualche cosa dalla sera precedente, sempre col timore che ci fottano soldi con un giro più lungo del necessario per arrivare alla meta. Al Wow Hotel prendiamo tempo per contattare Kai Masanobu, giapponese coachsurfer che dovrebbe darci un letto questa notte...speriamo. In alternativa abbiamo più di un asso nella manica: le sorelle Bernardine, due amiche di Ilaria mai viste e sentite, un altro giapponese ingegnere in Rwanda. Un fenomenale salto nel buio irrisolto, insomma.
     All'aeroporto i soliti mille controlli per evitare ansiosamente la fine del mondo, una diatriba per non farmi imbarcare un bagaglio con ogni genere di tecnologia che l'Occidente possa offrire e una bel “vaccagare” ad un paio di nonnette spocchiose parcheggianti i loro bagagli sotto il nostro naso senza permesso. Al Gate 221 si riuniscono tutti i viaggiatori per Kigali: riconosciamo una famiglia rumorosissima ma simpaticissima con 4 bambini urlanti voglia di vivere e di rompere le balle al mondo, mamme formose dalle migliori puntate anni '80 dei Jefferson ed una ragazzina sveglia che parlando inglese diviene incontestata interprete internazionale di tutta la parentela.
     Alle 6 del pomeriggio il gate che sembrava destinato a pochi viaggiatori strampalati si riempie di famiglie intere, una spruzzata di uomini bianchi statunitensi (sono ovunque!), un bimbo che piange come se l'avessero impiccato ad un palo e sgozzato senza alcun problema -ovvero molto esagerato per un banale capriccio- cambiando tonalità di strillo ogni due minuti. Sarà un lungo viaggio.
     Irene guarda un aereo della Ucrainian Airlines e lo definisce l' ”aereo delle badanti”, domandandosi se lo puliscano bene e se valga proprio la pena di usarlo. Sostiene infine che per vedere i gorilla serva il permesso dei gorilla, 5 mesi prima come il visto d'entrata, sperando vivamente di non essere morsi da un piccolo di gorilla e contrarre la malaria. Per queste ilarità ridiamo felicemente per mezzora, mentre l'occhio ci cade e programmiamo di fare birdwatching, cricket, golf, gorilla trekking, e forse la ricerca per la tesi.
    Intanto una mamma richiama Erik per la duecentesima volta, una donna legge un libro sulla sorcellerie dans l'église ed un sosia spiccicatissimo di Mario Monti scappa con questo volo in Rwanda lasciando l'Italia nel suo brodo di polli e crisi. Ed è la crisi quella che si scatena da lì a poco...passaggio passaporti, tutto ok; biglietto aereo, ok; bagaglio re-imbarcato; stampa del visto on-line...non c'è.
“Attenda un attimo”, e mi si gela il sangue pensando che potrei rimanermene in aeroporto a Istanbul senza partire.
     Cerco tra le carte, le decine di documenti stampati: non lo trovo. Sia maledetta la Turkish Airlines, la stampante rotta dell'Edisu, le liposuzioni pulp di “Fight Club”, e qualsiasi altra cosa possa servire da agnello sacrificale. Mi rincuoro pensando a Fante, all'incipit del suo incontro col nuovo indesiderato cagnaccio (è la settima volta che rileggo “A Ovest di Roma”), ma la cruda noia del reale mi ributta giù col naso tra le carte, bloccato in un gate dell'aeroporto.
     Sicuramente sulla mia e-mail lo troverò, mi dico. Ci sono 5 linee wi-fi a pieno segnale ma tutte criptate, e quei maledetti della Turkish non hanno alcuna password o connessione da cavo attiva. La fila fluisce, provo con un impiegato a cercare una wi-fi al bar più vicino. Non c'è, ovviamente alcuna linea attiva. Terrore. Poi lampo di memoria, San Gennaro in corner per il colpo di testa e culo. Sul netbook ho le copie di tutti i documenti, anche del mio primo compito alle elementari, anche i file che dimostrano la falsità dello sbarco dell'uomo sulla luna. Apro il pdf, con la batteria che mi guarda e ride. Impreco, il pdf finalmente si apre, e la scritta gigante “Republic of Rwanda” con il mio nome a fianco rasserena gli animi dell'impiegata che sento di odiare come non mai. Il lascia passare è concesso: innalzo dunque esausto e gonfio un “FUCK!” a lettere cubitali nel cielo di Istanbul. Fuochi d'artificio per la buona riuscita.
      Entrati in aereo, un tizio vuole il posto di Irene senza alcun motivo e con un biglietto numerato del tutto diverso -negando allo stesso tempo il mio al suo fianco- . Sempre senza motivo, si alza tranquillo e se ne va come se nulla fosse due minuti dopo.
     Esausti, finalmente riusciamo a capire con la nostra vicina d'aereo romana che lavora a Kampala come vederci un film in lingua non-turca e sentire musica non-pacchiana sullo schermo dell'aereo. Scelgo il Padrino II, un album dei Rolling Stones e sbircio da quello davanti il percorso in aereo. Nel mentre arriva il trancio di salmone con improbabili contorni, le immancabili nocciole e la pesantissima mousse di -ancora- nocciole con un ciuffo di panna in cima. Il viaggio mi pare più lungo che mai, e tentare di intrufolarsi in classe Business ci vale quasi una scomunica dalla hostess che, nonostante tutto, è anche più simpatica della sua collega troppo simile a Mara Carfagna (un altro sosia o l'originale che scappa via per sempre?).
     Arriviamo a Kigali all'una di notte, poi solita trafila finale visti, documenti e carta d'entrata; 25 euro da pagare, bagagli megalitici da recuperare, prima sim rwandese recuperata, chiamata a Kai con due interpreti e taccuino a portata di mano, taxi contrattato in due valute, trasporto bagagli dai nostri coachsurfers e tentativo di capire dove siamo e perché...troppi input minano la lucidità? Arriviamo da Kai e compagna, in un bell'appartamentino dall'odore di cibi Japanese. Si tira la zanzariera, si fanno due chiacchiere di commiato e finalmente il cuscino/divano ci coccolano con un sottofondo di ronzii mosquitos.



Il tramonto su Istanbul visto dal "Wow Hotel", con il cielo tagliato dai numerosi aerei in partenza/arrivo.