Dopo aver parlato di
spiriti cacciati dalla bocca di stregoni la notte può essere un po'
suggestionata. Per fortuna la stanchezza supera ogni altra cosa, e
dormo come un sasso fino alle 8, svegliandomi per fare i back-up, dare un'occhiata agli scritti, scoprire che la stanza mi è stata davvero offerta per 2
notti, fare lo zainone con il quale vado all'ufficio della Belvedere
Lines a comprare il ticket per
Kigali a 3000rwf.
Mi
dirigo al mio baretto di fiducia a fianco della Adepr, dove cercherò
di parlare ancora qualcuno prima di partire alle 15.30. Nel
bistrot comunico in inglese
con un simpatico ragazzino probabilmente figlio della proprietaria
che mi porta il Nescafé -tenuto da parte ieri pomeriggio- e va a
prendere del pane per farmi dejeuner.
Ripenso
alle battute fatte ieri sera con i Pasteurs ed
ammiro l'ironia di alcune figure che, avendo viaggiato in diversi
paesi del mondo, sono consapevoli delle molteplici differenze umane
dall'effetto spesso esilarante. Per esempio uno dei Rev. si
meravigliava di non poter indossare jeans per
predicare in alcune zone dell'Africa fuori dalla città, considerati
volgari stracci da cowboy (a
cui suggerisco la prossima volta di dire: “ma questi sono i Jeans
di Jesus! Anche Jesus indossava i Jeans”, con grandi risate del
Pasteur);
un altro Rev. del fatto che avere il cappello in chiesa fosse grave
peccato in certe campagne rwandesi, follia per tutti i presenti -ma
non per i contadini-; infine, il più giovane si soprendeva del fatto
che urla ed estasi carismatiche non sono proprio la nostra idea di
sanità mentale e, soprattutto, che molti italiani possono vivere
tranquillamente concedendosi la Messa di Natale e nulla più.
Scoprire
che c'è qualcosa oltre la fede totale incondizionata del proprio
orticello, l'ABC del relativismo, riesce ancora a schockkare
qualcuno. E non solo in Africa,
ovviamente.
La mia colazioncina continua con del latte caldo per stomaci di ferro
e del pan carré. Gironzolo dopo aver fatto quattro riprese in un preaching a
due tradotto dall'inglese, con lo sportivo REV. kenyota in gran
forma; poi mi sposto e faccio una telefonata skype in mondo
visione con tutti i bimbi curiosi di vedere un laptop parlante.
Gioco a tris nella sabbia con tappi di bottiglia piegati, e
sempre nella sabbia mostro all'informatore che Greenwich non è sul
nostro fuso orario, mentre il Rwanda incredibilmente lo è. Gironzolo
ancora, stanco dei due giorni pieni di misticità, e visito le cucine
dove tutte le donne, intente a pelare patate e banane, sono
diverttite dal muzungu che fa delle foto senza capirne il
perché.
Parlo con una ragazza di 22 anni, C., l'unica a dire due parole
in inglese, vivamente sorpresa del fatto che in Italia siano ben
pochi a sposarsi intorno alla sua età. Ovviamente per lei, come per
tutti i rwandesi, tutte le persone in tutta Europa sono
sfacciatamente ricche, compreso il muzungo che
le sta di fronte. Io penso alla mia borsa di studio millesimata e
penso: magari fosse vero!
Attendo il pranzo come non mai, ma non volendo ancora ripropormi i
bis forzati
degli scorsi giorni, mi sforzo di aspettare la fine di
un'interminabile conferenza sulla vita di coppia e l'accrescimento
del sé con esplosioni di performances
personali piene di
urla.
L'ultimo pranzo e le ultime chiacchiere con il REV. di Nairobi,
poi prendo il mio zainone e sotto una pioggia freddina con vento
forte -tipo rifugio in alta quota, ma che diavolo succede?- mi dirigo
al bus tutto infradicito e con l'umidità nelle ossa. Qui aumento il
mio dizionarietto kinya
chiedendo a tre
bambini di tradurmi delle frasi basilari e qualche vocabolo
dall'inglese.
Viaggio interminabile sognando le lucine di Kigali nell'oscurità
del cielo, schiacciato nel posto dietro il guidatore e con lo zaino a
rubare spazio persino per respirare. A Remera
scendo e prendo una moto poi, arrivato davanti il cancello, chiamo
Marianne che mi viene ad aprire 10 minuti dopo accompagnata da
Gonzagh.
Posso finalmene farmi una doccia per la salvezza non dell'anima ma
dell'igiene personale, con a seguire ennesima moto per andare a casa
di Juventine dove si trovano già gli altri italian
and rwandan friends:
la cena è ottima, con un principio di Mutzig da consumare piano
piano ingurgitando inzoga
senza ritegno. Le
discussioni passano da tranquille/seriose riguardo attuali temi della
politica, a stereotipi rwandesi sulle donne della campagna (stupide e
ciondolanti come les
vaches che allevano),
ad un momento di canti in kinya
supportati da battiti
di mani e cavatappi su vetro di bottiglia. Una traduzione cantata
seppur stridula de “le bionde trecce gli occhi azzurri e poi”
doppiata da Juve, per la buon'anima di Lucio Battisti e de ”La
canzone del sole”, introduce la serata in un lento degenero di
idiozie divertenti.
Usciamo pour dancer
in un locale tamarro
fighetto di Kigali, il “BCK”, che con gran fantasia prende il
nome dalla banca sottostante. Mutzig a fiumi e tormentoni come “It's
impedith!” e “it's inguardabol!” rallegrano gli animi ed il
cuore più delle urla carismatiche, monoteiste e monotematiche di
questi tre giorni passati. Sfilano balli à
la rwandaise e molesti
interpreti si uniscono a ragazzine in cerca di esperienze muzungu
e, dopo una gran
cagnara, la via del ritorno in moto dei supergiovani
italiani ciondolanti e
raffreddati costa 1300rwf.
Arriviamo al portone cotti ed
esausti, mentre silenziosamente ma esplicitamente Marianne ci apre
ben risentita dell'ora mattutina con il moetzin
ch'inizia a cantare proprio il quel preciso istante. La notte sotto
la zanzariera annuncia un inizio di strisciante febbriciattola che la
mattina dopo diventerà un enorme malditesta ed infine una influenza.
Non vi preoccupate, il Dorigatto continua a sfrecciare per le strade di Kigali. Foto del Maichi-bu-ntu'12.