lunedì 1 ottobre 2012

30 settembre, Day 68. Sur la promenade, mangiucchiante canna da zucchero.

     Annibale bussa fragorosamente alla mia porta, un delitto dopo sole 4 ore di sonno o poco più. Si cerca un posto per colazionare dopo aver impacchettato per bene gli zaini accatastandoli in uno stanzino dell'alberghetto con finte colonne dipinte a mano: riusciamo ad ficcarci nel peggiore localetto islamico della cittadina, dove due ragazzi tentano di fregarci soldi rivendendo chapati e tortine comprate per strada. Penosi cambi di prezzo e storielle inventate sul momento, attese estenuanti e tentativi improbabili di cambiare gli accordi: si accontenteranno del prezzo reale della merce solo dopo un'altra mezz'ora di estenuanti dialoghi fondati sul nulla, specialità dei poveretti di mezzi e di spirito non solo in Africa.
     Usciamo per la camminata in montagna voluta dai compagni germanesissimi su, per i bricchi che partono dalla strada in direzione Kivu, dove montano decine di persone senza poter vedere la loro destinazione. Facciamo foto al lago da un magnifico punto di vista ed i rwandesi, nel loro solito stile, ci domandano soldi senza ragione alcuna se non l'esser bianchi. Qualcuno ha anche la bramosia di farsi immortalare sotto lauta ricompensa senza che nessuno di noi l'abbia richiesto. Svincoliamo queste noie salendo per una ripida salita e vedendo un villaggio in lontananza, fantasticamente incorniciato da nuvole leggere come panna montata e verdi colline dai riflessi giallastri. La promenade è molto trafficata in entrambe le direzioni e con merci poste sui capoccioni con un pezzo di stoffa a far da cuscinetto; bambini piccoli scappano alla vista degli uomini bianchi, alcuni terrorizzati come non mai, con le risa degli adulti del villaggio divertiti dalla scenetta. Altro che paura da uomo nero nell'armadio...i bianchi sono vivi, vegeti e davanti casa nostra!
     Merlino compra un bastone di canna da zucchero che domanda di pulire gentilmente con un machete arrugginito. Sarà K. a mostrargli come proseguire nella difficile arte dell'apertura del duro tubero, mentre io fotografo tavolacci di legno colmi di pezzi di carne macellata, pieni di sangue e mosche e vigilati da un ometto con un grembiule sporco di schizzi rossi. Direi che le macellerie di questi luoghi non seguono proprio la nostra idea di regolamentazione igienica come nemmeno, di fatto, i pescetti stesi su un pezzo di carta al sole per diverse ore prima d'esser venduti.
     Una mezza discussione con un vecchietto pretendente cento franchi per le foto prese alla sua casetta -suggeritogli da una giovane donna che si avvicinerà di proposito-. Nessun problema, queste foto valgono in ricordi e qualità di scenario. Si ripagano i cittadini anche comprando qualche banana a dei piccoli venditori ambulanti, attorniati da decine di bambini prima spaventati dall'obiettivo e poi impazienti di finirci dentro.
     Il sentiero di ritorno passa per campi di fagioli stesi su una collina, bananeti a perdita d'occhio ed un sentiero privato lastricato in roccia di qualche chiesa pentecostale su cui finiamo per caso e da cui dobbiamo uscire perché privi di permesso. Qui in Rwanda c'è bisogno di una lettera di permesso davvero per qualsiasi cosa. Questa scampagnata davvero bella termina con un ritorno sulla spiaggia dopo una camminata di 25 minuti sull'asfalto, qualche chapati (un rito quasi obbligato) ed una capatina al Serena Hotel per una maggiore sicurezza degli zaini durante i nostri bagnetti pomeridiani. Qui ci insediamo su grandi sedione in stile reale sotto un'enorme magnolia centenaria, evitando anche di prendere da bere – il posto non è del tutto economico, direi- per fortuna più o meno casuale.
     Colpo di scena: un serpente è avvistato in acqua e si dirige verso la spiaggia. Sono mobilitati una canoa a remi, un motoscafo, un supervisore, mentre una folla di gente s'accalca a guardare per un'ora intera tutte le fasi di cattura della povera pericolosa bestiola con la strana idea di fare il bagnante proprio nell'ora di punta. Grandi risa per la caduta dell'uomo della canoa dopo aver tentato con un remo di rompere la testa all'invasore: a seguire, fuga disperata nuotando verso il motoscafo come un sacco di patate dolci divenuto da predatore a preda in pochi secondi.
     L'orologio corre, sono già le quattro del pomeriggio e si deve tornare alla capitale. Si rifanno i bagagli, si riempie lo zaino e poi dritti con una moto alla stazione dei bus.
Biglietto a 3000rwf per tre ore di scomodità Kigali Bus Service, piogge torrenziali nell'oscurità e vicini di posto che vanno, vengono, mi schiacciano con i loro abiti bagnati e le loro grossa braccia ciccione, mentre prego di arrivare finalmente in città per poter muovere di nuovo le gambe. Dopo esser finalmente giunto nella casa che mi appresto a lasciare domani, giunge il Dorigatto updating me sulle sue sventure, preparante una pasta tonno+pomodoro e arrabbiata con gli dei per il suo destino avverso.
    Nell'oscurità della cameretta mi dedico alla stesura del blog, all'ascolto di musica che poco ha a che fare con l'Africa, al pisolino ristoratore ed infine al sonno profondo.




    "Villaggio mio che stai sulla collina [...]", Foto Maichi Ntwari Pashcal.

29 settembre, Day 67. La grande fame, pacchiani hotel dedicati a ricercatrici americane e la sanguinolenta Goma.

     La voglia di lago è grande, ma non quanto la voragine da riempire nello stomaco con enorme difficoltà causa chiusura di tutte le attività per il lavoro socialmente utile d'ogni mese: Muganda!. Si gira per la cittadina, si torna all'albergo e si cerca persino la sorella di un amico di K. affinchè possa darci qualsiasi cosa da ingerire purché nutriente. Dopo un'ora e mezza di tour a vuoto ecco che, pur arrivando a destinazione, la nostra nuova amica di Gisenyii non ha di fatto nulla da poterci offrire.
     Disperati ed affamati come non mai ci si trascina dunque al Diane Fossey Hotel dove, per una ridicola omelette ed un paninetto con prosciutto, aspettiamo -record africano finora- un'ora e mezza. Sotto il sole, frustrati dal pranzetto muzungu, si procede in direzione della spiaggia dove mi accorgo di non avere nessun costume nello zaino e torno en ville a comprarne uno; nel mentre K. passa il confine per vedere degli amici pagando 5 dollari per un permesso di entrata/uscita valido 48 ore.
   Bagnetto nel lago con un rwandese molesto ed eccessivamente bramoso di creare nuovi contatti, poi una nuova pioggia ch'arriva come una grande scia irregolare ed il riparo forzato sotto un caseggiato in cemento armato d'un cantiere con ponteggi in legno grezzo (alla faccia d'ogni legge europea sulla sicurezza, capaci di far venire vertigini solo vedendole).
      Per bere ikivuguto+cake mobilitiamo tre persone che ci portano a destinazione gentilmente per lo spuntino delle 6 del pomeriggio. La notte è già discesa, K. torna dal Congo con un gran maldipancia: lo curiamo con Nescafè dal potere plus che fa tornare tutto a posto. Siamo tutti pronti per uscire tranne Annibale, che si addormenta e getta la spugna. Io, K. e Merlino ci dirigiamo verso un buffet dai costi poco chiari ma dalla varietà stranamente ampia; io spendo qualcosa in più concedendomi il lusso di carne a 500 rwf il pezzo, 3 in totale.
    Utilizzati gli stuzzicadenti, si parte per il “Caribana” dove la musica cessa d'improvviso per l'arrivo della polizia -scontri tra giovincelli, probabilmente-. La situazione non è risolta in breve, dunque ci raggiungono degli americani viventi a Kigali e si decide di spostarsi altrove. Il Galaxy è semi-vuoto, si procede ancora al White Horse dove incontriamo un attacca brighe che punta K. in malo modo. Lo riusciamo a scavallare dopo venti minuti di discussione e si va tutti a casa, l'aria è troppo pesante. Ancora due parole prima di andare a dormire sull'accaduto, e poi, all'anomala ora del thè, si russa facendo un gran rumore.
  




 
    Maichi Ntwari Pashcal @ North Lake Kivu, Gisenyi. Mattino d'inferno, pomeriggio piovoso e serata fresca: la schizofrenica ricetta equatoriale per non sapere come vestirsi. Dal costume al pile in cinque minuti.

28 settembre, Day 66. La gitarella al nord Kivu e le scatolette Toyota 24 posti.

     La sveglia suona alle sette. Primo obiettivo è preparare una tazza di Nescafè, masterizzare dei cd, fare la copia di alcuni dati importanti, uscire di casa a razzo per rilegare i fascicoli e consegnare il tutto al Ministero. Il motard mi aspetta impaziente ma una volta che il mio plico è giunto a destinazione posso risalire in sella verso Nyabugogo, dove giungo in ritardo a causa di ulteriori piccole domande durante la consegna del materiale. Il cellulare non riconosce stranamente la mia sim, non posso avvertire dell'imprevisto e, morale della favola, si prende il bus delle 9.30 aggiungendo pure una colazioncina nei piccoli locali della stazione dei bus. Sul trabicolo Toyota da 24 posti capito nel posto peggiore, quello di fianco l'uscita: alza me, alza lo zaino mio e dei ragazzi tedeschi, apri la porta con una sicura del tutto farlocca, risiediti e così via per 6 fermate e 3 ore di viaggio. Ovviamente, lo schienale è rotto e la signora di fianco puzza di sudore. Sulla strada incontriamo anche dei controlli di polizia di dubbia utilità, mentre penso che viaggiare in Africa è tanto bello quanto unconfortable. Dopo due ore e mezzo ecco spuntare il Lake Kivu in lontananza: un mare che si perde all'orizzonte, dolce e ricco di gas metano, circondato da colline e con un enorme vulcano in lontananza, oltre Goma, oltre il confine così vicino col Congo.
     Arrivati alla stazione dei bus incontriamo la pétite amie di K. con la quale contrattiamo il prezzo per un alberghetto a 6000 rwf a notte ed in seguito facciamo pranzo con un insoddisfacente pesce preso dal Kivu e buttato intero direttamente sulla griglia (del tutto diverso dal gigante capitaine del lago Vittoria che mangiammo a Kigali). Aspettiamo un'ora per avere anche delle patate fritte, mais c'est normal. La pioggia si avvicina, feroce come il vento che si alza tirandoci negli occhi granelli di sabbia irritanti e soffocanti, in cerca di un ATM che non sia fuori servizio (risolvendo solo après mezz'ora con una BK dopo diversi giri, ritorni a casa, mototaxi e discese dello spirito della buona volontà).
   Attendendo K. ci dirigiamo al lago per dare un'occhiata al tramonto, esser colti da un enorme temporale e dallo sbalzo di temperatura non appena il sole se n'è andato a nanna. Ci reincontriamo per tornare a godere di una doccia in albergo e poi dritti a mangiare brauchette di carne in un locale di musica dal vivo dove assistiamo alle sculettate danzanti à la congolaise di alcuni ragazzi che farebbero gola ad “Amici di Maria de Filippi”. Ci dirigiamo verso il lago a piedi, una traversata fino ed oltre il Kivu Serena Hotel con visita alla frontiera, tanto facile da passare per i residenti quanto difficile per muzunghi sprovvisti di visto come me. Poco male, dall'altra parte c'è Goma ed i suoi tre morti ammazzati -come riferitoci in diretta da tre ragazze tornate dal Congo-. "Direi di rimanere in Rwanda, no problem guys", ripeto con K. scherzando per sdrammatizzare sull'argomento.
   Si ritorna indietro verso casa omettendo un deserto White Horse con entrata a duemila franchi rimpiazzato dal danzerino Galaxy per birra, salti sul posto ed improbabili vecchiette scatenate in pista. Flotte di mototaxi-spilla-soldi aspettano nel cuore della notte i clienti desiderosi di tornare a casa. La stanchezza del viaggio si fa sentire: chapati, chiacchiere senza luce ed il più totale black-out. Così l'orologio corre e le palpebre si chiudono.




    Comincia il diluvio, si corre al riparo. Foto Maichi Ntwari Pashcal.

27 settembre, Day 65. Chiavi nere da salotto, lettera di permesso dai cieli alti e carta Kodak in offerta.

    Vado da K. a metà mattinata per incontrare il produttore-chitarrista dell'East Africa nel cui salotto suono “Lonely Boy” con la nostalgia di un bambino che tocca di nuovo il suo giocattolo preferito. A seguire su e giù per Kigali insieme al rastaman S. alla ricerca della giusta soluzione qualità/prezzo per la stampa fotografica dedicata alla mostra del 15 ottobre. Non è facile contrattare, rivedere il risultato su supporti differenti, proporre soluzioni alternative e così di seguito per tre ore. I nostri sforzi sono però ripagati: carta fotografica comprata a parte, stampa a colori di qualità in una grande copisteria, scelta di soggetti adatti allo scopo ed il gioco è fatto. Più che ottimo trovandomi in una capitale centro-africana. Perla truffaldina proposta da una coppia d'indiani kigalini: stampe A4 a 5000 rwf l'una. No, grazie.
     Risolta la questione, schizzo dritto dal rappresentante legale che mi ha appena informato dell'ok concessomi per fare ricerca. Un altra spada di Damocle dall'esito incerto. Ma anche questa è fatta. Come un bimbetto questa volta felice del permesso di andare al parco donato dai genitori, vado al Kie a fotocopiare e scannerizzare l'importante documento, facendo back-up in lungo ed in largo di tutti i dati raccolti sul campo. Chi cerca trova. Che fatica. Le zanzare attaccano, ma l'aurea positiva scaturita da questo onesto culo mi rende immune dai fastidi burocratici rwandesi.
   Tutti al Goethe per una discussione sul Vision 2020 poi, un po' annoiato dalle domande interminabili del pubblico, raggiungo K. col quale ritorno all'istituto ed infine a casa sua dove troviamo i vicini alemanni per qualche chapati ed una birra in compagnia. Si mischiano tre lingue, volti e storie differenti, punti di vista sul mondo non sentiti, gioventù e generazioni vicine seppur lontane geograficamente per il resto dell'anno. Si inizia a sbadigliare: una moto e via, dritti a casa in vista della gitarella di domani mattina.




Young Africa comes first, Foto Maichi Ntwari Pashcal @ Musha.