sabato 25 agosto 2018

9 aprile 2014

Piccola parentesi iniziale su una categoria di lavoratori diffusa e particolare quasi quanto i "motards" di Kigali: il tassista dakariano. A seguire, dessert mondano per pallidi Tubab in vena di divertimento.

La densità numerica dei taxi di Dakar è pari solo alla popolazione del Giappone. Non si possono aspettare più di 2 minuti (forse 30 secondi è la media reale) per alzare la mano e fermare la prima auto gialla integra/accettabile su cui salire per contrattare il prezzo. Se non volete un taxi, siate sicuri che loro vogliono voi: se passeggiate per fare delle commissioni, se state scendendo le scale di casa uscendo dritti in strada, se arrivate ciondolanti da un locale, persino se siete appena scesi da un altro taxi state sicuri che qualcuno vi strombazzerà alle spalle gridando: «on y va?».
Quasi tutti i taxi hanno una simbolica coda di mucca che tocca il terreno posta di fianco la marmitta ed innumerevoli accessori tra cui una foto del Marabù locale. Quest'ultima enigmatica figura col volto celato da un velo bianco che copre tutto il corpo, apparentemente senza braccia, è una sorta di santino protettore comune tra i tassisti tanto affascinante per un occidentale come me, fresco d'Islam.

Alziamo la mano e fermiamo la prima berlina priva di bolli o ruggine sulla carrozzeria. Attraversiamo un grande boulevard che da l'impresione di essere tornati in un villaggio forestale tra spazzatura ai bordi della strada, cattivi odori e merci vendute sui marciapiedi. Scesi dall'auto salutiamo il giovane lavoratore dai modi svogliati, vagamente scorbutici, che scambia il sedile di guida per la poltrona del suo salotto. Siamo fortunati: spendiamo solo 2500 CFA per arrivare al Just 4 You, secondo bacino di contenimento artistoide per espatriati da tutto il mondo per ascoltare il concerto rap di una gang dakaroise.

Si gustano un paio di Flag, birra locale promossa dal portavoce del nostro fegato; nel cielo, una luna crescente e stelle mai viste, sopra un tavolo da biliardo con una giocatrice uscita da Woodstock ed un sottofondo ritmato con rime in franglais riassumibili con un cappellino storto dalla visiera piatta e la frase : «sono figo». La serata passa piacevole e lenta. Gran chiusura, una galleria di quadri in stile "Botero africano" che mi mette di buon umore tra tricipiti sproporzionati, fianchi giganti, eserciti di sorridenti Grand-Mamans divenute obese per le numerose gravidanze e qui raffigurate nei panni di venditrici di frutta, verdura, pesce ad uno dei tanti mercati locali. Una sorta di omaggio alla comunità famigliare, alla fecondità, al senso materno, alle amorevoli cure, al cibo tradizionale. Ma anche ai seni e ai sederi "abbondanti" tanto apprezzati, in genere, dal pubblico maschile africano.

Foto: "Tout-en-famille" by Mika von Puskjin



Memories and notes @ Dakar (but not only), Senegal, West Africa

A' barchetta cà bandierina? Ma non è che state a fà i turisti?


Farsi un bagnetto con queste onde? Ma anche no, dai.


Maschera per rituale d'iniziazione @ Museo IFAN, Dakar


Mosquée de la Divinité @ Dakar, corniche ouest, by Ntwari J. "talvolta" Pascal


A grigliar ò foco lento sotto lo zenith e sulle dune di sabbia di un finto deserto là, decidemmo di sederci ad arrostir anche le chiappe!




Tra l'acacia centenaria ed il baobab secolare là, vi dico, si trovan li servizio civilisti! @ Thiès.


Pasqua Dakaroise. Una vitaccia proprio. Lasciate perdere. Sullo sfondo il nuovo Casco Bianco selezionato.


Questa immagine vale come auguri di Pasqua facebookiani-universali. Basta uova di Pasqua, voglio una Flag ghiacciata 33 cl.«Perché i tramonti che non avrai visto tu in Africa, eh?» (ipse dixit) 
@ île aux Serpents, La Madeleine, corniche est de Dakar, Senegal.


Isola di Ngorée, Dakar, Senegal, West Africa (April, 2014) — a Gorée.

  

A 40 anni dall'uscita, ancora così fresco, profondo, affascinante, sperimentale. Infine, copertina stupenda.

"Che ora è? E' tardi ormai.
Mia cara, cara amica
che ne dici se noi
portiamo a termine la nostra
dolcissima fatica.
Allontaniamoci verso
il centro dell'universo"

Lucio Battisti, "Abbracciala, Abbracciali, Abbracciati", in Anima Latina, 1974.
— presso Centre ville de Dakar.




10-11 aprile 2014


Un foglio bianco, una consegna, dei campi da riempire.
Uno scervellio di post-it con le mani sporche di un pennarello blu che corre per fissare le idee tra gli spostamenti, le sviste, i ripensamenti necessari a far quadrare un disegno mentale trasposto in un logical framework. Strana avventura del ragionamento e della creatività o, meglio, di (buone) idee da passare al setaccio...ma il progetto procede, lentamente.

Penso: chissà cosa provava e cosa aveva in mente Buckley scrivendo i pezzi per "Sketches for my Sweetheart the Drunk" (?), mentre un blues sottile mi pervade l'anima correndo lungo il litorale di Dakar, laddove s'incontrano contraddizioni di bellezza e disgusto al limite dell'irreale. Da un ratto di 40 centimetri schiacciato a bordo strada ad una solitaria colorata piroga che solca l'oceano, da un uomo di colore alto quasi due metri che cammina nudo a bordo strada verso il faro del promontorio (per ragioni sconosciute), ad una allegra comitiva di bambini che si sfida al parco giochi, posto dritto in direzione dell'isola di Gorée.

Dopo uno scontato vernissage di "pittura panafricanista" ed una forte curiosità culturale mal ripagata, in tarda serata cerchiamo lo stra-consigliato bistrot "La Couleur" (Lonely Planet docet). Non trovandolo, girovaghiamo su e giù per le vie del quartiere entrando infine in una sorta di locale parigino - così mi immagino Parigi, non ci sono ancora stato - chiamato "La Terracce". Qui scopriamo che "La Couleur" è chiuso da ben sei anni ed è ora chiamato "Impalah". Me lo dice lo stesso proprietario, che nemmeno sa di essere presente su internet con informazioni sbagliate (ma quali guide, ci vogliono i nativi!). Dopo aver salutato il gatto più ruffiano di tutta l'Africa - nuova mascotte ufficiale -, facciamo una passeggiata nell'oscurità di Ouakam improvvisando una visita notturna alla statua della Renaissance Africaine tra la nebbia, l'umidità ed il vento gelido dell'Atlantico. La città s'immerge in un'atmosfera spettrale tra Silent Hill e Parnassus che ben concilia il sonno ma, talvolta, può generare mostri degni dell'immaginario di un Goya di cattivo umore. Una tisana della nonna (senza nonne) post-birra, e tutto torna a posto...

Foto: "Pana-che?" by Mika von Puskjin.
 
 

13-14 aprile 2014


La sabbia del deserto si alza sopra Dakar trasformando per due giorni il bel cielo azzurro della capitale in un pallido, lattiginoso velo che intrappola senza troppi inchini o convenevoli i tetti della città, le auto, i cittadini (e le loro vie respiratorie). Una cappa d'umidità e polvere finissima crea una strana atmosfera capace di soffocare l'anima e massacrarti le meningi con uno strano senso di "oppressione circolare", galleggiante sopra la tua testa, mentre dai tombini l'umidità infiltrata fa risalire i cattivi odori delle fogne mischiati al sentore di urina sulle barriere di un cantiere abbandonato. Saliti sul primo taxi facciamo la parte del pollo chiuso in forno - a contatto con degli assurdi coprisedili pelosi in materiale sintetico - filando dritti per il grande viale che termina con l'obelisco su cui sono incisi verticalmente i caratteri: "MCMLX". «Siamo al confine con la Mauritania», mi ricorda il frère che ci fa visitare la scuola in cui lavora, frequentata da 4300 alunni, «Normalmente da qui si vede l'isola di Ngorée, quando il cielo è terso...». Annuisco distrattamente mentre osservo la linea dell'orizzonte persa in una nebbia impenetrabile, chiedendomi perché il forte vento che soffia dal mare non riesca affatto a smuovere questa cappa che ci ruba il bel panorama che siamo soliti conoscere. Una scuola molto grande priva di studenti è l'immagine della desolazione, del silenzio, della futilità di scervellarsi per una sufficienza in matematica quando non pensi ad altro che segnare un gol al campetto. Un saluto veloce, e riprendiamo il nostro taxi a microonde. Tornati a casa, il sentore di immobilità, stranezza, di un «c'è qualcosa che non mi torna», mischiato ad un senso di vaga immotivata stanchezza, diffusa spettralità e confusione non finisce affatto. Strani ululati provenienti da un appartamento vicino, regolari e cadenzati...che sia un cane? Rumori di porte cigolanti che sbattono sugli stipiti...forse il vento? Urla di accesi litigi in un arabo distorto e rabbioso provengono dalla grande piazza; poco dopo, una piccola luce s'accende d'improvviso dalla finestrella di un enorme grattacielo buio posto proprio di fronte la mia finestra. Strane sensazioni da "The Sixth Sense" e tutto ciò che l'immaginazione può produrre con i suoi vezzi per farvi restare sulle spine. Che questo caldo vento, capace di mutare in poche ore il volto di Dakar, abbia portato con sè qualcosa di più della semplice sabbia del deserto? Leggere i racconti di Poe crea dipendenza da terrore e mistero, o quel gatto nero che corre sul tetto di fronte sta davvero cercando d'uccidermi? Ieri era anche il 13 del mese, non dimentichiamolo! Ma la vera domanda rimane: chi è quel genio d'autore che in una puntata dei Simpson immagina il trasferimento della casa natia di Edgar Allan su un camion guidato dall'uomo talpa?
Colonna sonora consigliata: "November" di Tom Waits con un bel piattone di zuppa di zucca fuori stagione.

Foto: "Tassisti e Marabù, un altro grande mistero dakaroise" by Ntwari J. Pascal
 
 
 

12 aprile 2014


Lunga fila per il traghetto che salpa verso l'isola di Gorée, ennesimo paradiso turistico visitato nel corso dei secoli (in ordine sparso) da Vasco de Gama, Hollande, Obama, Clinton e Giovanni Paolo II. Il museo di storia, situato all'interno del bastione circolare visibile dal traghetto, parte dalla paleografia per arrivare al colonialismo in 10 minuti, passando per le mostruose pratiche di prigionia delle navi schiaviste ad una rivendita di oggetti tradizionali che sembrano avere il fascino di una vecchia dinastia estinta nei secoli. La casa degli schiavi è affollata da centinaia di ragazzini facenti parte di differenti scolaresche che intasano il passaggio delle due famose scale speculari, fregandosene della guida e ancor meno dei cartelloni esplicativi ove sono descritte le condizioni d'inferno ed i diversi regimi di tortura inglesi, francesi, portoghesi e spagnoli. Che questo luogo di memoria del terribile "viaggio senza più ritorno" sia divenuto una banalizzata oasi turistica/didattica?

Per puro caso, proprio oggi troviamo in corso una cerimonia religiosa islamica che si svolge una sola volta l'anno. La conducono diversi capi religiosi, cantando e pregando versi sacri dentro un microfono amplificato in circa 10 casse da concerto rock alte due metri. Impossibile scampare a quel suono che si propaga per ore durante tutta la giornata, nè alle urla dei bambini che ti chiedono un «cadeau» per poi tornare a giocare a pallone su una distesa di sabbia con due enormi porte dalle reti strappate.

Un thiof grigliato ed un piatto thiboudienne: un pranzo leggero ed economico, in riva al mare, a seguito di una faticosa risalita per la collina vulcanica su cui si possono ammirare grossi cannoni di difesa militare, una vela bianca alta diversi metri e numerosi scultori, pittori, rigattieri pronti a vendervi qualsiasi cosa per pochi CFA. Spiccano i rastafariani manufattori di tele in stile batik con superfici sabbiate ed iscrizioni personalizzate. Si possono ricevere regali strani per la sola promessa di pubblicizzare la loro attività, come una bottiglia di vetro contenente: "polvere del deserto", sabbia dell'isola di Gorée, un pestato nero ricavato dall'albero della mangrovia, fascino africano banalizzato. C’è tempo, infine, per un ultimo saluto all'”uomo tranquillo”, installazione dedicata alla pace famigliare che consiste in un uomo sdraiato con un cappello in testa che, in compagnia di sua moglie e di un bambino che dorme ai suoi piedi, guarda fisso davanti a sé. Le contraddizioni interne alla famiglia sono rappresentate da un vaso metallico ove si lasciano cadere (insieme alle mance) tutti gli scontri, i disaccordi, le cose che non funzionano.

Ma ciò che rende davvero faticosa la permanenza in questo Eden sono senza dubbio i commercianti ambulanti. Professionisti spennatori di polli bianchi, vi domanderanno almeno 105 volte di comprare uno qualsiasi dei loro pezzi, dalla collana alla statuetta, dalla maschera al dipinto su tela, dalle maracas al portachiavi. Vi inviteranno a fare un giro "veloce" nella loro boutique, nel proprio atelier, nei propri bar, talvolta anche a casa loro.

Nel pomeriggio oziamo con una Gazelle ed un thè arabo di prima tiratura, forte e amaro come lo amo da sempre (nero rwandese ancora imbattuto per qualità), guardando i bambini che sguazzano nell'acqua del porto dove il battello "beer" arriva per caricare gli ultimi girovaghi rimasti sull'isola. La folla preme per prendere posto sull'imbarcazione diretta a Dakar. Si spingono persino le Grand-Mamans velate che, al termine della cerimonia giornaliera, saltano senza problema la lunga fila chilometrica d'accesso ai posti a sedere. Per farle rispettare l'ordine di salita - senza barare e senza scuse di alcun tipo - gli addetti alla sicurezza si rodono il fegato e si raschiano la gola probabilmente evitando anche d'imprecare in questo giorno dedicato alla preghiera...che non ci sia più religione né le gentili, carine, educate vecchiette di una volta?

Infine, come non terminare questa nostra - direbbero gli Aerosmith - «permanent vacation» di un giorno, se non con un narghilè alla menta con thè alla menta nel pacchianissimo locale "Caesar's" situato a pochi metri dal Palazzo Presidenziale?

Foto: "Che vivere a pochi passi dall'oceano alzi automaticamente la qualità della vita?" by Ntwari J. Pascal
 
 

15 aprile 2014


«Quando non feci la spesa a Dakar». Un piccolo omaggio a Claudiu, a.k.a "Colui che zoppica".

Guai a voi, pigroni, che pensate di non fare la spesa, e ripetete tra di voi ”non serve uscire, basta metterci un po' di fantasia a preparare la cena"...stolti voi, e maledetti siano i vostri stomaci e l'appendicite della vostra progenie!
Grande l'ingegno richiesto per tirare fuori un piatto appetitoso da una serie di scatolette, grande la vostra fortuna se il fato deciderà di concedervelo! Nella terra dei fagioli, fagiolini e piselli sottovuoto pare si sia abbattuta la maledizione del faraone, la piaga peggiore che si possa infliggere ad un commerciante di verdure che ha passato la sua vita a convincere chiunque che la sua merce fosse salutare, facesse scendere drasticamente il colesterolo e rinvigorisse gli animi. Peccato che...non abbia mai saputo di un cazzo.

Guardando le scatolette rimaste in casa devo decidermi sul da farsi. Scelgo di aprirle tutte, e di vedere cosa succede. Tonno atlantico senza olio, schiacciato su un lato, 75 grammi, costo tre euro (!). Immotivato oro del mare, usurpatore del legittimo trono di sir Tuna Fresco detto il "Tonno come Dio comanda", verrà il giorno in cui sarai smascherato! Pisellini di Spagna: non è possibile, mai vista tanta tristezza nella penisola iberica. Fagioli bianchi, ricoperti da un'irritante patina grigiastra...troppo facile scrivere il colore giusto sulla scatoletta? Fagiolini dell'orto, "come una volta": vorrei conoscere l'agricoltore per vedere se negli anni è diventato cieco e/o zoppo, perché una volta queste cose non si dicevano, tanto meno facevano, nemmeno le si pensavano! Scambio l'ordine degli addendi sul tavolo, tipo gioco delle tre carte, ma ancora non succede nulla...che servano una zampa di gallina ed una coda di gatto, come nelle migliori pozioni da strega, per cavare qualcosa da queste mostruosità sottovuoto?

Una padella ed una cipolla, ovvero "il soffritto come l'inizio di tutto", di un buon pranzo come di una buona giornata e forse anche del genere umano. Il Big Bang delle massaie e degli scapoli che vogliono ambire alla gloria di Master Chef. Poveri loro, stolti discepoli di un crudele Bastianich, che pensano di risolvere il problema di una buona alimentazione con dei tacos al formaggio presentati su un piatto a regola d'arte! Che basti un semplice soffritto, dicevamo, per ridare vita a verdure morte ed inscatolate mesi prima del vostro acquisto? Troppo poco probabile.

Internet. Internet è la risposta. Google, Google contiene tutto, anche la risposta a quesiti astrusi come "preparare verdure in scatola in poco tempo facendo qualcosa di buono". Mezzo milione di risposte in meno di un secondo, ma nemmeno una che valga la pena di considerare. Riprovo: sul sito dell'azienda produttrice di tonno, alla voce "ricette", compare una "pasta all'italiana" con un filo d'olio d'oliva e mezza scatoletta di pinne blu dell'Atlantico sgocciolate. Avessero almeno scelto il Mediterraneo, che diamine! Rifletto sulle gravi conseguenze di non aver fatto la spesa per pigrizia, chinando il capo in direzione della TV che trasmette un'improbabile televendita di coltelli Shogun adatti a tagliare proprio quelle maledette robe di alluminio mentre penso alla commessa di "Supermarket" cantata da Lucio Battisti ritrovando il sorriso ma perdendo l'appetito.

Morale della favola, prendete le scatolette e svuotatele. Otterrete un misto di verdure in scatola con tonno (ed un filo d'olio d'oliva, seguiamoli i buoni consigli!) perché, più di questo, non si può davvero fare.

Foto: "Il bugigattolo di Claudiu, già sugli schermi di You-ng.it" by Ntwari J. Puskjin

Go on! http://culture.you-ng.it/2013/12/11/random-spritz-et-voila/
 
 
 

16-17 aprile 2014


Talvolta si deve guardare una cartina e, per puro intuito, buttarsi a capofitto senza conoscere nulla di un quartiere. Può essere una scelta vincente. Lo è stato oggi, quando guardando la pianta di Dakar sottosopra mi sono detto: ”Plage de Yoff...perché no?". Oltre la Mosquée Layène si stende a perdita d'occhio l'oceano, interrotto solo dalla piccola omonima isola e dal lungomare che si perde in lontananza. Lo si percorre a piedi nudi con il piacere d'esser bagnati dalla cadenza regolare del riflusso, come solo i buoni cooperanti esperti possono fare senza sembrare dei semplici turisti (ma lunga è la strada d'apprendimento per noi, poveri mortali!).

L'immensa spiaggia dakaroise mi ricorda la chilometrica Copacabana, posta proprio dall'altro lato delle acque a mesi di navigazione. Le onde sono molteplici, si intersecano su tutti i lati, incrociandosi ed unendosi in una fitta trama che è difficile seguire; mille tsunami in miniatura disperdono la loro forza stendendosi dolcemente sulla lunghissima tavola di sabbia bianca, come una tovaglia tirata da una massaia esperta.

Proseguiamo verso l'île de Yoff incontrando un affascinantissimo panorama composto da piroghe dipinte, carretti trainati da cavalli per il trasporto del pesce, bambini che giocano a calcio e fanno la lotta libera in spiaggia, gruppi di pescatori che tirano le reti gettate non troppo lontano dalla riva, donne con secchi carichi che vanno su e giù per le mie inquadrature ma non vogliono apparire in fotografia, bellissime ragazze truccate con cura che sputano a terra da scaricatori di porto senza curarsi della mia presenza. Una spiaggia che è un mondo popolatissimo che «corre sulle spiagge atlantiche seguendo il calcio di un pallone, per finire nel grembo di grosse mamme antiche dalla pelle marrone», direbbe Qualcuno. Forse, in fondo, quell'«Anima Latina» che brucia il petto dei brasiliani appartiene anche a questi senegalesi pescatori e uomini di mare.

È il momento giusto, finalmente le reti tirate da decine di persone arrivano sulla spiaggia. Scenario grandioso quasi quanto una novella di Verga letta da Carmelo Bene: i bambini fermano i pesce siluro (che siano proprio loro?) liberandoli da cartacce e sacchetti; gli uomini spezzano le vertebre del collo dei poissons striati d'azzurro facendo leva sulle ginocchia; le donne riempiono i cesti, li appoggiano sulla testa e si dirigono verso le case poste oltre le piroghe che guardano l'oceano.
Mi butto a capofitto in mezzo le reti e la comunità al lavoro, scattando foto in uno di quei paradisi del reportage che raramente capitano sotto mano. Nessuno m'impedisce di documentare la scena, anzi tutti sembrano contenti del mio interesse per il loro lavoro. I bambini ci mostrano un enorme pescepalla scartato dalla pesca prima di rigettarlo in acqua - tenendolo senza troppa cura dalle branchie -, un granchio legato per una zampa, un riccio di mare insabbiato, con quella noncuranza infantile per la vita che li fa sembrare piccoli "Lord of the Flies" à la Golding.

Il sole comincia a scendere. Un taxi contrattato a buon prezzo e dritti verso la Plage de Hann in cerca del circolo dei velisti che, sempre ad intuito, dovrebbe avere un bel panorama e birra a prezzo modico. Dopo aver domandato se l'ingresso sia riservato ai soli soci, ricevuta l'accogliente risposta «pas de problème, venez-vous!», ecco che troviamo proprio ciò che ci aspettavamo. Un grosso bancone in legno con bottiglie di qualità in quantità, dipinti con barche a vela, balene e capodogli, un vecchio timone ed attrezzatura di bordo come arredamento, una piccola bibliotechina a tema sulla navigazione (atlanti illustrati compresi), un gruppo di marinai che calcola delle rotte con un gps, tavolini bassi pieni di sigarette spente, una cameriera silenziosa che ci porge due Flag in bottiglia ghiacciate con arachidi. Un simpatico francese di Toulouse-Paris-Dakar, sposato con una congolese, attacca bottone domandandoci se «siamo oppure no dei veri navigatori». Essendo la nostra risposta negativa, gli ricordo che in quanto italiani abbiamo comunque un'antica progenie che passa da Cristoforo Colombo a...«Marco Polo!» - interviene JeJe (questo il nome del marinaio) - «si, non proprio...ma quasi!», rispondo dubbioso. Siamo, ovviamente, invitati a mangiare al suo ristorante congolaise per gustare le specialità preparate da sua moglie. Mentre l'ennesimo gatto ruffiano mi gira attorno, miagolando come i venditori ambulanti che raccontano senza posa le storie di alcuni parenti che vivono in Italia (mostrando al contempo la solita merce per turisti), mi domando come debba essere vivere in una di quelle barche ormeggiate...solo per mesi nell'intento di attraversare un pezzo di Oceano in balia dei venti e delle maree, dalla Bretagna alla Spagna al Senegal, con un gps ed un carico di pazienza sovra-umana nella stiva (questi gli itinerari narratici).

Si conclude così un bello, inaspettato pomeriggio dakaroise. Colonna visiva/sonora consigliata: la coda strumentale di "Anima Latina" in loop, intervallata da spezzoni del film "Brazil" di Terry Gilliam.

Foto: "Pescepalla, mademoiselle?" by Ntwari J. Pascal
 
 
 

18 aprile 2014


Un pranzo a base di tonno, cercando di rimanere leggeri per la Pasqua (che bravi!), anticipa la mia impellente voglia di esplorare questa città. Mi viene affidata la grande missione “andare a caccia di un posto interessante e trovare un menù che sia economicamente papabile per domenica, né troppo costoso ma nemmeno troppo scarso, mi raccomando!". Potrà sembrare una cosa semplice, ma vi posso assicurare che non lo è affatto.


Voglio andare a colpo sicuro. La mia ricerca e curiosità si sposta verso un quartiere di Dakar rinomato per la sua bellezza e ricchezza, Les Almadies. Un taxi contrattato a 2500 CFA attraversa tutta la cornice est arrivando nei pressi dell'ambasciata americana che, come al solito, non manca d'imponenza e prepotente rigore proprio come la sede delle Nazioni Unite, un piccolo castello bianco e blu riconoscibile a chilometri di distanza.

Proseguo sotto il sole cocente verso un polo turistico d'eccezione: l'Hotel del Almadies. Dato che sento molto grande la responsabilità sulle mie spalle, decido di concedermi una bottiglia di Tonic a bordo piscina domandomi se sia il posto giusto per chi mi ha commissionato l'attenta scelta (!). Documento il tutto con foto alla struttura, ai menù, all'arredamento. Mi metto nei panni di un folle critico di Trip Advisor che vuole rendere difficile la vita del gestore, miscelando l'isteria di una esigente cinquantenne single da vent'anni alla crudeltà dei Pirati dei Sette Mari o dei Caraibi o quel che vi pare, basta che siano cattivissimi. Mi viene difficile non essere colpito da tutto questo sfarzo imponente per i primi due minuti...poi l'effetto sorpresa scende ed inizio ad annoiarmi terribilmente di tutti questi gingilli per turisti. Fuggo rapidamente verso il primo taxi che mi porti ai piedi del "Phare des Mamelles", raggiungibile per l'affascinante salita con ampia vista sull'oceano. Nessun paragone è minimamente sostenibile.

Poco prima del tramonto sono in marcia per una corsetta verso un altro faro, quello situato sulla "corniche est" all'altezza di un altro grande resort (strano!) delle Nazioni Unite, che anticipa un concerto rap all'institut Français, soddisfacente più di ogni mia rosea aspettativa e qualitativamente superiore a quanto visto al Just for U nei giorni scorsi. Su e giù per le strade di Dakar, le sorprese
sono ancora molte.

Foto: "Se aprite un local molto chic in riva all'oceano ricordatevi d'indicare SEMPRE quanto è distante da Rio de Janeiro, mi raccomando" by Ntwari J. Pascal
 
 




 
 

19 aprile 2014

«Perché viaggiando s'impara», mi dissero. Quando sento questa frase ripenso sempre all'incipit di "Tristes Tropiques" e al genio ironico di Lévi-Strauss. Auto-dissacrante al punto d'affermare «Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni». La sua affermazione, apparentemente paradossale, ci dimostra (con tutto il resto del libro) che non sia affatto vera. Almeno per chi ha viaggiato molto, come Lui.

Ed ora...due pillole di saggezza estremamente banali frutto di una peregrinazione, la mia, come tante altre, nemmeno troppo interessante, affatto avventurosa. Se vi sentite giù di morale, eccovi un paio di rimedi sicuri per rimettervi in forma psico-fisica (anzi, solo "psico", anzi solo "forma"): 1) compratevi un ippopotamo di legno artigianale senegalese anti-stress dalla faccia simpatica e con l'ippo-culone più grosso possibile. Fissatelo, ridete, pensate ai soldi gettati al vento per comprarlo, tornate ad essere giù di morale; 2) cercate una qualsiasi recensione di Trip Advisor tradotta da Google Translator al primo livello ("comprensibile") e continuate a leggere opinioni scritte da persone che vivono dall'altra parte del mondo. Meglio se palesemente prive di capacità d'espressione oltre che di scrittura elementare. Quest'ultimo punto apre un mondo di comicità inaspettata, soprattutto per le recensioni d'italiani che non dovrebbero affatto necessitare di una traduzione. Fine delle pillole. Anzi...3) fare jogging, salutare gli altri bianchi che fanno jogging sul lungomare, continuare a fare jogging. Guardare il mare. Sentirsi in forma. Respirare profondamente. Sognare ad occhi aperti. Fare jogging da capo.

Nell'attesa di riprendere in mano la macchina fotografica e dirigermi verso la Mosquée de la Divinité per scattare alcune immagini prima del tramonto, scopro un nuovo luogo dedicato palesemente agli espatriati sparsi per la città di Dakar: il "Presse Cafè". Nuovo luogo eletto all'attività scribacchina che tiene in movimento la mente, provoca artrosi alle articolazioni da nerd/geek-wi-fi-dipendente, lascia fluire senza ostacolo alcuno pensieri ed idee, prova a dare una risposta alla domanda: "Dove diavolo sto andando? Ma soprattutto, quanto costa il cappuccino aromatizzato alla vaniglia?".

Faccio due chiacchiere con un tassista che, fumando come una ciminiera, mi parla di suo fratello maggiore risiedente in Italia. Oltre al fastidioso odore ed al rischio d'intossicazione da fumo passivo, ottengo alcune informazioni utili per visitare luoghi sconosciuti della città. Mi faccio lasciare in prossimità della rotonda vicina alla grande Moschea situata sul mare, in prossimità di una scogliera rocciosa e di un villaggio di pescatori. Scendo la salita che porta ai piedi del tempio musulmano a tre piani, di colore verde, rosso e bianco, sormontato da due grandi torri dal fascino arabeggiante. Flotte di giovani giocano a calcio nel loro solito stile "contatto fisico all'ultimo sangue" dribblando gli avversari e le teste di pesce mozzate, le budella di cernia sparse qua e là sulla sabbia. Le piroghe attraccate sono in numero minore rispetto a quanto visto nei quartieri Ngor, Yoff e Hann, ma non mancano affatto di colore, iscrizioni, simboli, riferimenti. Un vecchio Imam legge e canta a bassa voce i versi di un piccolo Corano formato tascabile rivestito d'oro. Guarda l'oceano, mentre ai suoi piedi tre gatti randagi mal ridotti divorano delle lische di pesce e due grossi pellicani che paiono statue piantate nella sabbia si riposano mantenendo alta l'attenzione con i loro grossi occhi neri che s'aprono al minimo rumore.

Tra gli anziani del quartiere noto un terzo pellicano addomesticato che emette versi simili ad un cane. Mi lascia letteralmente di stucco, soprattutto per il suo carattere difficile e geloso verso il padrone, che mi convince a mantenere le distanze. Cosa ancora più curiosa, non conoscendomi si volta dall'altra parte accovacciandosi in un angolo (questa l'interpretazione datami dai pescatori). Ne approfitto per immortalarlo con il suo "papà" ed una magnifica rappresentazione di un suo simile dipinta su un muro che rende chiarissima l'idea: IO vivo qui. Un saluto ed un ringraziamento agli uomini del villaggio, poiché grazie a loro questa sera avrò un pò di materiale fotografico da maneggiare ed un nuovo archivio west-africano da riempire.

Foto: "Pelli-cane e padrone" by Thomas Mann & Ntwari J. Pascal.


20-21-22 aprile 2014


Poco importa elencare le meraviglie culinarie ingollate con ingordigia durante la Pasqua (cristiana cattolica) o la Pasquetta (trionfo laico della carne alla brace) o i giorni seguenti per finire gli avanzi delle feste (religiose e non). Gesto ben più alto è, invece, ricordare la leggendaria discesa del Lagavulin in terra senegalese. In omaggio al celebre recensionista culinario pluripremiato dal popolo di Trip Advisor, un episodio memorabile della sua lunga onorata carriera che presto diverrà una fiction Rai per famiglie bigotte trasmessa in prima serata.

Quando Lagavulin decise la meta per le sue vacanze in terra africana, ben s'informò nella sua agenzia viaggi di fiducia sulla qualità culinaria del paese di destinazione. Si può dire che fu un pieghevole di un locale senegalese (dimenticato da una turista soddisfatta della sua vacanza appena conclusa) a convincerlo, a dispetto di spiagge bianche e mare color verde/azzurro cui non dava importanza alcuna. «Al diavolo l'indice di sviluppo umano, contano le recensioni dei ristoranti 5 stelle!», sosteneva l'esperto, convinto che la vera morte dell'essere umano fosse solo la mancanza di qualità in cucina. Lui era e rimaneva un recensore pluripremiato del celebre sito "Trip Advisor". La sua parola era pressoché sacra, la sua approvazione contesa dai migliori chef presenti in rete. Nonostante campasse scrivendo recensioni «meno maligne» chiudendo talvolta un occhio sugli «amici di sempre» (Fonte: Il Cucchiaino Storto di Bari, 2003) che gli arrotondavano lo stipendio - oltre che riempirgli il ventre - la sua era una lotta per la sopravvivenza e la coerenza di principi. Laddove si doveva stroncare, non si lasciava spazio alla comprensione; se vi era da massacrare, si agiva con fermezza e crudeltà. Costui era IL Lagavulin.

Arrivò a Dakar con il primo volo della giornata, recandosi subito nell'albergo con vista sull'oceano prenotato dall'agenzia. Tutta quell'acqua e quella meravigliosa vista non gli interessavano affatto, tanto che teneva le tapparelle chiuse lasciando entrare solo la luce sufficiente per leggere le recensioni sul suo vecchio pc. Non conoscendo alcuna lingua straniera oltre il norvegese, per qualche assurda ragione (che sfidava la sua costante, testarda ricerca della "Verità" culinaria) si fidava delle traduzioni offerte da Google Translator. Fu proprio grazie alla recensione di una neozelandese in menopausa intitolata "Kitchen from hell" che scelse il suo pollo africano da spennare. Si recò al grande ristorante sull'oceano più scelto dal popolo T.A. prendendo il primo taxi, sferzato dal vento del tramonto carico di odori che gli ricordò per un attimo la potenza di sapore del tortino alle mele di mamma Isabel Günter, gustato quando aveva quattro anni («Il mio lavoro è, in fondo, cercare qualcuno o qualcosa in grado di eguagliare quel tortino», La Repubblica Traballante, 2004). Scese spazientito dal taxi per avere perso 5 minuti di troppo a causa di un semaforo rosso, non lasciando la mancia ma anzi sbattendo la portiera insofferente di tutta quell'incompetenza. Il 7 stelle Michelin "La Rochelle" era osannato per la sua lunga storia di qualità, ricercatezza, gentilezza, cattivo gusto nella scelta dell'arredamento (necessario per sembrare molto ricercato), costante odore di pesce alla brace nell'aria.

Lagavulin si sedette guardando fisso il menù, oltepassando lo sguardo del cameriere, dei vicini di tavolo, ovviamente già preparato sulla scelta da farsi. «Menù numero tre, "Afrique Super"!». Nell'attesa dell'arrivo del suo piatto unico a base di pollo alla piastra, gamberetti in salsa rosa/verde e banane fritte, posizionò attentamente in modo parallelo le sue posate di fianco al piatto e guardò fisso davanti a sè il volto di una scultura che rappresentava una figura allungata nera con abiti coloniali bianchi. Il suo volto da uomo burbero e barbuto a metà tra Orson Welles e Bud Spencer si scurì al settimo minuto d'orologio passato ad attendere. Il piatto arrivò con ben 10 minuti di ritardo secondo la sua tabella di marcia. Mangiò un gamberetto, la pelle del pollo, mezza fettina di banana. Chiese il conto praticamente nel momento stesso in cui il cameriere s'allontanava dal suo tavolo. Il navigato direttore di sala, per qualche assurda ragione, non fu affatto stupito di quel comportamento bizzarro. Anzi, chiese se volesse il dolce. Alla fine del suo "pranzo degli orrori" durato un paio di minuti, gli venne presentata LA specialità, il cavallo di battaglia della città, il fuoco d'artificio finale: un dolce tipico della costa occidentale africana a base di salsa di arachidi, uva secca e cous-cous. Concesse due ulteriori minuti alla servitù e chiese di farsi chiamare un taxi per guadagnare tempo. Il cucchiaino s'immerse nella crema color sabbia del deserto, a suo parere evidentemente mal dosata e mal presentata. Tirò fuori mezzo cucchiaino, assangiando con la punta della lingua la salsa dolce. Fu amore a primo gusto. Immerse il primo, il secondo cucchiaino, si meravigliò di domandare il bis (solo la Günter ebbe questo onore in precedenza), poi un terza, una quarta coppetta. Ne fece un consumo spropositato, fregandosene delle macchie di arachidi sullo sciarpone di seta rossa in stile "critico cinematografico snob francese" che soleva indossare in queste grandi occasioni. Alla sesta coppetta accusò il colpo, e sudando freddo domandò ove fosse la toilette. Credendo di aver risolto quel piccolo problema fisico, ne chiese un'altra, convinto che il locale dovesse ancora meritarsi la sua buona recensione. L'abuso del dessert fu tanto grave ed irresponsabile che si finì per chiamare un dottore in sala, mentre la vergogna di Lagavulin salì alle stelle fino a fargli perdere i sensi. Pare che delirarando ad alta voce chiese l'aggiornamento del suo status su Facebook in: "seriamente dolorante ma soddisfatto".

Il brutto incidente tuttavia non minò affatto la grande fama del recensore Trip Advisor nel corso degli anni a venire. Anzi, ne accrebbe la fama di spericolato sperimentatore aperto alle culture geograficamente ed antropologicamente lontane dalla sua natìa Norvegia. IL Lagavulin è ancora vivo e vegeto, e continua a ricattare con patetica eleganza i suoi "amici" ristoratori.

Foto: "Lagavulin all'epoca della sua prima recensione presso una piadineria di proprietà sino-cingalese a Prato" by Ntwari Bear II. Divertissement senza impegno a cura di Mika von Puskjin.
 
 
 

29 aprile 2014


In mattinata riesco finalmente a visitare il museo IFAN dell'università di Dakar ottenendo anche uno sconto da "residente cittadino". Pur non amando troppo i musei etnografici colmi di oggetti decontestualizzati, devo ammettere che questa mostra risulta molto efficace e ben seguibile in tutti i suoi particolari grazie ad un'invidiabile sinteticità e ad un buon gusto nella scelta degli oggetti esposti.

Sono particolarmente colpito dalle maschere funerarie e/o rituali provenienti da tutta l'Africa Occidentale capaci di creare immediatamente uno strano alone di "mistero esotico ed esoterico" da romanzo di viaggio nell'aria. Pensare che questi oggetti, dai feticci ai costumi, dalle statuette agli strumenti musicali, abbiano fatto parte di rituali per pochi iniziati (che stanno quasi totalmente scomparendo) li rende ancor più unici e degni di interesse. Deformazione antropofagica, si sà. Alcune proiezioni in una piccola stanzetta oscurata rappresentano stralci di rituali di passaggio senegalesi, proponendo anche delle proposte/soluzioni per far sì che non si perdano nell'oblio del tempo e nel disinteresse delle nuove generazioni.

Al primo piano dell'edificio dell'università di Dakar v'è una mostra temporanea dedicata al grosso problema della plastica. Il percorso museale investiga con efficacia come il Senegal abbia cambiato negativamente negli ultimi decenni ed in maniera (ir)-reversibile il suo paesaggio urbano e non solo. Un'installazione artistica rappresenta un albero ricoperto di sacchetti che poggia su un terreno in cui sono riconoscibili un vecchio televisore, un monitor rotto, resti di montagne di poubelle puzzolente. Un video mostra un incontro di lotta libera tra un muscoloso atleta senegalese e due sacchetti di plastica: nonostante l'eccellente forma fisica, il gigante è sconfitto dai sacchetti neri che gli entrano prima in una narice, poi gli coprono la testa soffocandolo. Il monito è chiaro, urlato a squarciagola dal telecronista dell'incontro: «sta al Senegal decidere cosa fare in questo momento!». La mostra prosegue con la riproduzione di alcuni luoghi conosciuti nella vita di tutti i giorni: un tavolo di un ristorante, un punto vendita ambulante di caffè solubile (ve ne sono molti in città), pezzi di arredamento in una casa dei giorni nostri (Africa o Europa, poca differenza su quest'ultimo punto). Il percorso si conclude con un parallelismo tra gli oggetti tradizionali ed i nuovi oggetti in plastica: imbuti, tazze, recipienti, bambole, borsette, valigie raccontano una storia dimenticata e sorpassata in favore della pura plasticaccia Made in China. La popolazione senegalese è invitata a tornare a consumare con oggetti in cuoio, ceramica, stoffa di produzione artigianale raffinata, bella, affascinante e soprattutto...biodegradabile, a differenza dei 400 anni necessari per la scomparsa di un singolo sacchetto.

Nel tardo pomeriggio mi concedo l'ultima corsetta dakaroise sfidando le lunghe onde sulla solita spiaggia della cornice, osservando incuriosito una piroga che giunge a riva con un conduttore molto preoccupato che continua a guardarsi le spalle da una nave della guardia costiera visibile in lontananza. Provando la solita paura di morire di fame prima di un lungo viaggio, ci concediamo una discreta abbuffata di "buon ritorno" con le specialità salate de "La Galette" ed un paio di birrette: «hai tempo per correre!».

Un ultimo sguardo al tramonto di Dakar, ai turisti bianchi bruciacchiati in aeroporto, un pensiero al destino ironico che la vita può proporci. Con due grosse occhiaie arrivo nella piovosa Torino con gli abiti adatti alla temperatura di Dakar, dovendo ancora affrontare un mini trasloco nella mia stanzetta/bugigattolo in stile sabaudo. Non so per quale ragione, ma sto già pensando che tra un mesetto ripartirò e le carte si dovranno nuovamente rimescolare...deformazione semi-professionale o semplice curiosità per il futuro?

Foto: "Trova le differenze tra Torino e Dakar" by Ntwari J. Pascal
 
 

26-27 aprile 2014


Ci si prepara per una fuga al Lago Rosa, viaggetto comodo di circa un'ora lontano anni luce dalle traversate guineane fuoristrada-spaccaschiena per pochi coraggiosi volontari fuori di testa. Primissima cosa davvero rilevante da riportare: il lago non è affatto rosa. Pare infatti che le alghe poste sul fondo, prima causa della particolare colorazione, siano oggi troppo in profondità a causa dell'alta marea. In realtà, la prima impressione è che la casa editrice che distribuisce le guide turistiche abbia usato photoshop per creare ad arte un inganno turistico. La seconda è che in fondo, rosa o non rosa, rimane pur sempre un semplice lago.

Ben più interessante, invece, la nostra camminata sotto lo zenith solare per un piccolo deserto di sabbia finissima che arriva ad una sconfinata spiaggia. Ovvero, una follia. Per 250 chilometri, fino a Saint-Louis, la grande distesa bianca a bordo dell'oceano continua indisturbata la sua corsa confondendosi con la foschia creata dall'umidità atlantica, ben oltre l'orizzonte che si staglia di fronte i nostri occhi. Dopo aver mirato l'effetto ottico delle grandi onde che in lontananza sembrano inghiottire la terra arrivando invece ad infrangersi sulla riva a pochi centimetri sopra il ginocchio, il senso di sconfinata libertà di questo paradiso per menti solitarie, il vano tentativo di rappresentare tutto ciò con una serie di scatti fotografici, segue il ritorno a piedi nudi per la grande distesa del viaggio di andata. Morale della favola, si finisce per diventare dei gustosi polletti alla piastra sprovvisti di crema solare.

Passiamo in mezzo le saline del Lac Rose ove lavorano in settimana circa tremila persone, intontiti dalle proposte di souvenir e ricatti morali (con tanto di bambina piangente inviata dai genitori per addolcire i nostri cuori e portafogli) degli insistenti venditori sulla riva. Dopo aver conosciuto la differenza tra le numerose montagne bianche ammassate per utilizzi d'ogni genere, appreso le fasi d'estrazione artigianale del sale a bordo delle piroghe, compreso la pesantezza fisica di questa enorme mole di lavoro, ci rimettiamo finalmente in viaggio. Oltrepassiamo una grande vallata ove si stendono grandi baobab isolati, spogli ma imponenti, che dominano lo spazio attorno loro da centinaia di anni. Proseguendo in direzione dell'oceano arriviamo ad un locale di Thiès immerso nel grande inferno del caldo senegalese, gustando prelibatezze praticamente abbracciati al ventilatore per non soffocare nei +40 gradi, ma con lo spiacevole effetto collaterale di creare nient'altro che un vento bollente da profondo Sahara.

Nel tardo pomeriggio facciamo un piccolo tour nelle campagne limitrofe Thiès ove possiamo vedere - questa volta da vicino - un baobab ed un'acacia gigante, ove i contadini trovano ombra e riposso dopo una giornata di lavoro nei campi. Proprio qua sotto ci viene offerto del vino di palma dentro una zucca calabash: dopo aver sorseggiato la propria parte, è necessario condividere il contenuto con i presenti in altri gusci vuoti, così fino al termine del liquido alcolico, estratto in modo totalmente naturale dalla palma piantata a pochi metri di distanza.

A casa di Armando, lo strampalato aperitivo serale è a base di whisky, coniglio e salatini, inondato da Porto Cortez che rallegra il cuore - divenendo la mia nuova malsana abitudine - e rende ufficialmente il concetto di "aperò"del tutto relativo proprio qui, sull'equatore. Sulla stessa linea, il giorno seguente una "pasta alla bolognese" che dimostra ben poco d'italiano (mangiata mentre scorrono in TV le immagini romane della doppia canonizzazione papale, evento mediatico della giornata, intervallata a musica tradizionale islamica senegalese) revoca agli annali storici del gusto il concetto stesso di "pasta", in un anarchico gioco di decostruzionismo alimentare tanto esilarante quanto poco appetitoso.

Foto: "«...laggiù, troverete Saint- Louis»" by Mika von Puskjin.
 
 

23-24-25 aprile 2014


L'ormai solita colazione a base di yogurt e crunchy a basso costo che precede la produzione del documentario sul Centro Medico-Chirurgico di Gouécké diviene in questi giorni un momento immancabile, a tratti persino rituale, una di quelle abitudini senza le quali le giornate sembrano incredibilmente vuote seppur più leggere per la vostra digestione. Unito ad una carrellata di perle sul canale youtube "delle Meraviglie" firmate Crozza, poi, tutto diviene fantasticamente etereo, lontano dall'odore di muffa della vecchia, buia cantina della politica italiana che pare tuttavia sentirsi persino qui, a 6 ore di aereo dall'Europa.

Dopo aver trovato chiuso per un soffio il museo d'arte africana "IFAN", gironzolo tra le vie del mercato tradizionale a lato di Boulevard de la République per ricongiungermi a quello di Place de L'Indèpendence, passando dai fili elettrici alle pentole all'abbigliamento all'oggettistica in plastica a qualsiasi cosa si possa vendere sotto questo cielo africano. Sono seguito in modo molesto, in una specie di staffetta con cambio ogni cento metri, da sfacciati abbindolatori che cercano un escamotage per fare breccia nelle tasche dei malcapitati. Capaci di annoiare fino allo sfinimento i passanti (bianchi, ovviamente) con chiacchiere e considerazioni su Africa, Europa, la propria boutique, gli odiati mercanti libanesi, la cattiva qualità della merce cinese, il cugino che vive in Italia, siate sicuri che costoro vi creeranno dei problemi di nervi e l'insorgere di un'incontrollabile insofferenza per i venditori ambulanti.

Nel tardo pomeriggio è tempo di un altro rito a cadenza quasi giornaliera: la sfida alle onde della cornice ovest di Dakar in una corsa parallela alla corrente sempre più alta, sempre più fredda, sempre più forte. Già sento la mancanza di queste faticate con vista stupenda sull'isola di Gorée, il vento dell'oceano che sorregge i numerosi rapaci a mezz'aria e la grande salita che porta ad uno dei fari della grande città senegalese.

Terzo rituale che chiude la giornata, un pomeriggio scribacchino e futur-progettuale mentre ascolto con disgusto "Honey Pie" di Paul McCartney in un'orrenda banalissima versione jazz lenta trasmessa alla radio con, a seguire, l'ennesima partita di Champion's League proiettata sul megaschermo del locale "Presse Cafè" che attira le solite grandi folle. Infine, la constatazione fattuale che il consumo di una birra serale in compagnia non è affatto un rituale, ma una scalcinata seppur innocua cattiva abitudine che si cerca regolarmente di debellare cercando un'alternativa (affatto valida o credibile) nell'acqua minerale naturale.

Foto: "Quando par di sentire l'odore della politica italiana persino qui, sull'equatore", post-pro by Ntwari J. Pascal
 
 

21 marzo 2014


Dopo aver riflettuto a lume di candela di alcuni aspetti della magia tradizionale narratami da Ezechiele - il fascino dell'oscuro simil-Lovecraft miscelato ad un distaccato, ironico sguardo geertziano - il risveglio si rivela faticoso seppur alleggerito dal cielo velato e da un venticello equatoriale che ce la mette proprio tutta per sembrare "fresco". Mi perdo tra le righe di Robert Chambers mentre ogni nuova proposta non può che sembrarmi aleatoria, passeggera, un piccolo mondo rivestito di muri di gomma che sembra sussurarti: "c'è tempo, c'è tempo...". La stiratrice di Degas en Guinée usa un grosso ferro da stiro pieno di carbone che corre su e giù per i lunghi abiti cerimoniali bianchi, maneggiato con cura e precisione di movimenti, donandoti quell'illusione di semplicità di un lavoro svolto da mani esperte che è in grado di stregarti. Accompagnati dal rumore di 5 camion che lavorano alla costruzione di un nuovo pozzo nel compound, scopriamo un topolino che vive a casa nostra: nulla sembra più assicurarci la sicurezza delle scorte di cibo e la nostra tranquillità di camminare indisturbati per casa è messa in discussione. Nel pomeriggio tocca affidarmi a milioni di fermenti lattici sperando nella stessa efficacia della «pozione bituminosa di gin e melassa [...] rimedio sovrano per qualunque catarro o infreddatura, di qualsiasi data, non importa se preso al largo della costa del Labrador o sopravvento a un'isola di ghiaccio» del vecchio Giona di Moby Dick (seppur non si tratti di un male da baleniere). All'ora del tramonto, i moetzin si contendono gli uditori cittadini in una sorte d'involontaria gara "religion-rappistica" simultanea. Un melange che potrebbe sembrare un banale insieme di grida sconnesse ad orecchio occidentale, pur non essendolo affatto. Soprattutto dopo averci fatto l'abitudine...

Foto: "noci di cola: siete i benvenuti" by Ntwari Bear Puskjin
 
 

22 marzo 2014


Dopo che ieri sera un espatriato ci ha riferito, quasi per caso, aggiornamenti sui test del campione di sangue inviato in capitale, oggi la conferma ufficiale:

«(ANSA) - CONAKRY, 22 MAR - L'epidemia di febbre virale emorragica registrata nel sud della Guinea, che secondo un ultimo bilancio ha provocato 34 morti, è causata dal virus dell'Ebola: lo ha detto all'Afp il responsabile della prevenzione presso il ministero della Sanità a Conakry, Sakoba Keita. Ieri sera, il ministero aveva comunicato che un'epidemia di febbre emorragica aveva ucciso 29 persone, ma non aveva precisato la natura della malattia.»

In questo quadro generale poco confortante, per ora si continua l'avventura. Parliamo d'altro.

Sembra quasi impossibile non descrivere una realtà diversa dal nostro giardino d'Occidente senza passare da una cucina. Questa volta il setting è posto sotto un albero di mango fuori da casa di Angela. Un cane, piccioni e gallinelle corrono tra piccoli cumuli di residui vegetali e mattoni in terra rossa che sorreggono grosse pentole poste sui carboni ardenti, piene di riso in cottura. Grosse nuvole di fumo cambiano direzione seguendo il volere nevrotico delle folate di vento finendo ciciclamente a farci lacrimare gli occhi. Un pollo spennato viene lavato con gran cura, come se fosse un neonato (vista alquanto comica), prima di essere fatto a pezzi e gettato in bacinelle di acciaio poggiate sulla terra rossa. Di fronte, in un campo di arachidi, una donna è piegata a zappare velocemente, con piccoli colpi, il duro terreno circondata dal rumore dei mortai e da un piccolo cantiere ove si piegano pezzi di ferro o si riempiono cariole di cemento. In questo grande scenario caotico mi viene affidata la pestatura della salsa di melanzane, tramite un grosso bastone di legno, mentre da un bidone vengono colati litri d'olio (non riesco a capire cosa sia il contenuto) per friggere insieme pesci, pollo e verdure. In sottofondo compare una radio "pour la jeunesse forestière" condotta da una voce femminile irritante che propone hit reggae e pezzi di musica tradizionale. Una frase di Angela riassume tutto questo gran bazar culinario: "nous, en Afrique, on est une grande famille". Mi ipnotizzo nella pulitura del riso importato, posto in un grosso contenitore in vimini, imbiancato dall'amido e col piacere tattile di immergere le mani in tutti quei chicchi. Mangiamo dopo circa tre ore di preparazione ma con grande soddisfazione delle nostre fauci (rifiuto solo i grilli fritti nell'olio di palma rosso, chiedo venia). Nel tardo pomeriggio arrivano le danze: le donne, riunite per fare colletta in vista della risoluzione di qualche difficoltà entro la comunità, al ritmo costante e veloce di pentole di alluminio, maracas e cantilena ciclica, battono elegentemente i piedi a terra passandosi come testimone una coda di capra. Per noi ospiti viene posto una striscia di tela sulle ginocchia mentre quattro donne ci vengono incontro poggiandosi, al termine della musica, ai nostri piedi in segno di saluto. Ciclicamente vengono fatte offerte in denaro, custodite sotto le pentole che vibrano. L'atmosfera è molto accogliente e di fatto la grande famiglia (nulla a che fare con la ristretta, biologica parentela europea) conta almeno 30 persone partecipanti. Infine, ci viene donato del vino di palma con cui festeggiamo al compound in compagnia dei nostri vicini di casa: redistribuzione di risorse e "medicament" naturale al servizio di un bel sabato sera.

Foto: "Il dessert è servito" by Ntwari Bear
 
 

23 marzo 2014

Comincio a provare una leggera insofferenza. Tuttavia, basteranno solo tre punti per riepilogare la situazione.
Punto primo. Non amo i replay, soprattutto se trasmessi al lento, viscido ritmo beiruttiano. En boite, tornano i pessimi attori libanesi di seconda mano delle settimane passate attorniati da amiche "professioniste" dimostrando che, al peggio, non c'è mai fine. Pensare che soldi e faccia tosta possano comprare tutto, questo è il problema, non «to be or not to be», William S.! Ci vorrebbe un Hemingway qui, al bancone, capace di raccontarti grandi storie e di annoiarti illustrandoti i trucchi del mestiere sulla pesca alle trote, con in sottofondo "drunk on the moon" di Tom Waits e quella luna tagliata a metà, colorata di rosso, ferma nel cielo equatoriale senza muovere un passo. Dov'è la profondità, non dico la poesia, ma quel qualcosa in più per cui vivere oltre a muovere il culo credendosi Humphrey Bogart rimanendo niente più che Ronald McDonald? Ma sì, forse è chiedere troppo, forse è meglio rimanere in superficie.
Punto secondo. Penso a tutto questo prendendomi una pausa mentale, mentre continuano ad arrivare notizie internazionali sull'epidemia di ebola nell'indifferenza diffusa della popolazione. Mi domando se si tratti di eccessivo allarmismo bianco-tubabù o se i locali sarebbero capaci di rimanere a ballare fino all'ultimo sintomo. In questi momenti si esplicitano i metri di misura, la percezione della realtà con lenti fabbricate da ottici di scuole ben differenti e, spesso, è un bene prendere le distanze. Qui pare non viga nessuna preoccupazione. Almeno, fino a quando non si presenti qualcuno sputando sangue nero alla vostra porta.
Punto terzo. E se pensassimo a qualcosa in più di una partita di Champion's mentre il mondo ci mette in quarantena? Se noi - forse anche il vicino di casa - stiamo bene, tutto va davvero bene? Il pomeriggio trascorre tra la ricerca e l'inoltro di articoli, notizie ed aggiornamenti di un virus passato a poche centinaia di chilometri più in là di N'Zérékoré mentre, nel quartiere limitrofo, si sentono le urla per ogni gol messo a segno. Bere spensierati, certo, non disperarsi, senza dubbio. Ma nemmeno aspettare che piova per prendere l'ombrello sotto questi grossi nuvoloni neri carichi di pioggia.

Foto: "L'ombra del geko o 'L'Ombra dello Scorpione' di King?" by Ntwari Misha Puskjin


24 marzo 2014

Riunione di staff. Dossier prioritario: misure d'emergenza circa l'epidemia d'ebola nella regione forestale. Tutto è ancora in divenire, ma a breve riceveremo disposizioni in merito. Se pensate non sia possibile essere recidivi nel proporre l'ascolto di "Gloria in Excelsis Deo" (versione africaine) 5 volte di fila in un momento tanto delicato per i vostri nervi, bene, vi sbagliate. Ovvio a questa orticaria musicale mattutina con una "Michelle" Macca-rtiana pensando stupefatto sia stata pubblicata nel 1965 (Rubber Soul, si va per i 50 anni!). Dopo aver montato la prima bozza del docu-story sul centro medico CMC, mi dedico per gioco alla lettura ad alta voce del capolavoro di Melville, Moby Dick, ridendo di gusto seppur affascinato dalle rudi similitudini e battute marinaresche un po' Flying Dutchman un po' Horatio McCallister dei Simpson. Nel pomeriggio cerchiamo viveri per i prossimi giorni, cambiando il nostro solito punto vendita. Qui, dopo che una ragazza di servizio ci segue come un carrello umano tra gli scaffali (ciò è considerata una cortesia), il cassiere - a voi indovinare la nazionalità - mi domanda se in Europa ci siano molti evoluzionisti/materialisti. La domanda è certamente fuori luogo, ma ancor più assurda dal momento che è rivolta da qualcuno che ha il coraggio di vendere scatolette di piselli a 4 euro in Africa equatoriale (dove lo stipendio medio è di 60 euro, spesso molto inferiore) con ben 5 ragazzi di servizio che lo chiamano continuamente "Patron, mon Patron!". Rispondo in modo molto vago, prendendo il nostro sacco con 40 euro di scatolette e poche scatolette (pura follia, ma necessaria in questo momento di emergenza), la ricevuta timbrata e gli auguri del proprietario, per poi filare dritti in macchina. In serata gli sviluppi: pare che il destino viri verso Monrovia, Liberia. Tuttavia, ancora nulla di certo o definitivo, tranne un topino ucciso dal nostro vicino in cucina ed il caldo-umido infernale che ci fa gocciolare la fronte. C'est la Guinée.

Foto: "La dance qui avance" by Ntwari J. Puskjin


Memories and notes @ Guinea Conakry, N'Zerekore, West Africa (Mar.2014)


«Di tutti i posti pescosi pescosissima era la Locanda delle Marmitte, che ben meritava il suo nome, visto che le marmitte vi stavano sempre a cucinare zuppe di pesce. Zuppa a colazione, zuppa a pranzo, zuppa a cena, che quasi cominci a guardarti addosso per vedere se le lische ti spuntano dal vestito. Lo spiazzo davanti alla casa era pavimentato di gusci di cozze. Mrs. Hussey portava una collana di vertebre di merluzzo tirate a lucido, e Hosea Hussey aveva i libri dei conti rilegati in vecchia pelle di pescecane finissima. Perfino il latte aveva un sapore di pesce che non sapevo spiegarmi affatto, finché una mattina, nel fare due passi lungo la spiaggia in mezzo a certe barche di pescatori, non vidi la mucca pezzata di Hosea che mangiava resti di pesce, e marciava sulla sabbia con ciascuno dei quattro zoccoli infilato nella testa decapitata di un merluzzo, e giuro che parevano ciabatte»

Herman Melville, Moby Dick, "Zuppa di pesce", cap.XV




With Youl et Toussaint @ Monte Nimba, Guinée Conakry.

25 marzo 2014


Leggere articoli di testate internazionali su un'emergenza epidemica può essere molto utile quanto fuorviante. Il confronto tra punti di vista differenti è molto interessante: tra il «va tutto bene, i miei amici di Massanta non sono agitati!» e le breaking news allarmistiche (spesso smentite) ci sarà pur una via di mezzo credibile (ambasciate nazionali?). Navigando, trovo una foto del virus isolato in laboratorio allegata ad una notizia: sono subito circondato dai giovani colleghi che vogliono prendere un santino di quel piccolo nemico facendo scatti sgranati e pieni di pixel con il cellulare. Preciso, scherzando, che la "fototessera di ebola" è presa al microscopio e di non farsi ingannare dalla grandezza visibile sullo schermo: ottengo sguardi sempre più meravigliati per me ancor più sorprendenti. Mentre si gioca la partita a scacchi ragionata sul da farsi per l'epidemia, scopro che il nostro vicino di casa è stato in visita dal Papa in questi giorni (lo stesso per cui ho cucinato "italiano" al mio compleanno, ma credo che in Vaticano abbia mangiato molto, molto meglio). Inizio il montaggio de "La dance qui Avance", filmato qualche giorno fa da Angelina, mentre ci prepariamo ad una visita al consolato liberiano non prima d'aver fatto un paio di fototessere in centro città (lenzuolo steso alle spalle, sorriso forzato, canicola sulla testa, scatto con macchina compatta), di essere ritornati in ufficio per le lettere di presentazione e poi di nuovo in consolato per ricevere i timbri ufficiali. Al ritorno, dopo aver caricato sul pick-up un grosso sacco di carbone con venditrice compresa (al fine di acquistarne un altro al suo negozio più avanti, lungo la strada), notiamo i molti bambini che giocano in mezzo a rivoli d'acqua sporca, spazzatura e capre, terra rossa e polvere, mezzi nudi e gridanti "tubabù!", pensando a come farebbero facilmente prendere un infarto alle ansiose mamme europee. Sogniamo tutta la sera le spiagge di Dakar, che forse vedremo presto, maledicendo le connessioni centrafricane ed aspettando i prossimi sviluppi del nostro destino.

Foto: "fototessera per un virus mortale" by AFP/BBC News/US Health
 
 

26 marzo 2014

Mattinata trascorsa tra il consolato, la banca, il mercato, l'ufficio e poi di nuovo consolato, ufficio, casa, ufficio senza tuttavia risolvere ancora tutte le procedure necessarie ai nostri piani. Questo è il regno della magica burocrazia centrafricana e noi, come trottole, corriamo su e giù per questa canicola d'inferno domandandoci quando finirà la trafila mattutina. Nulla di certo, nulla di definitivo: siamo ancora in attesa di un ragionato responso finale sul da farsi dei prossimi giorni. Una cosa però è ovvia: in West Africa ci vuole molta pazienza e spesso quella di cui siamo naturalmente dotati non basta. In serata beviamo qualche birretta - a stomaco vuoto - con i frères vicini di casa quando il sole cala, le zanzare iniziano a sibilare nell'aria e l'acidia comincia a pervadere anima e corpo. A seguire, in modo allegro ma contenuto, preparo un risottino (che novità!) d'emergenza per ovviare alla fame di noi, poveri volontari in overdose da basmati importato, rincuorati tuttavia dal fatto che grossi cambiamenti si profilano all'orizzonte. Nelle prossime puntate...

Foto: "Scontata cartolina africana. Ma non l'ho ancora usata e va bene questa" by Ntwari J. Puskjin



27 marzo 2014

Bagagli in carrozza, un caffè di sfuggita e tutti in moto verso il confine. Dopo circa un'ora e mezza di viaggio arriviamo alla frontiera liberiana ove incontriamo un tizio che sfoggia una maglietta con stampata la frase "money rulez" e numerosi agenti appartenenti a diversi uffici. Riusciamo a proseguire dopo non pochi "sghiribizzi burocratici" per incontrare circa 9 posti di blocco dell'immigrazione lungo la futura autostrada verso Monrovia, costruita da una potente compagnia cinese. In un eterno replay di controlli snervanti a cui ci si deve abituare, volente o nolente, ascoltiamo la discografia di Lucio Battisti che scorre quasi completa tra escavatrici, camion, polvere, catrame, giubbetti di segnalazione e deviazioni stradali. Noto il mio braccio arrostito messo fuori dal finestrino solo quando entriamo in città alle 18.49 passando per la sbarra di controllo dans la banlieu de la ville. Al crepuscolo il traffico d'inferno monroviano è composto da macchine, carretti, persone, animali, moto, bancarelle, un taxi giallo spinto da guidatore e passeggeri, alcuna precedenza a destra o sinistra, moto con quattro persone in sella senza casco. Grandi viali illuminati sembrano quasi riportarci all'altro mondo, quello in cui viviamo, tra strade asfaltate, stazioni di servizio e semafori, anche se è palese la fortissima influenza statunitense. Arriviamo all'albergo chinese old-style (con addobbi natalizi appesi ancora a marzo) di Monrovia: di certo, uno stimolo alla vostra immaginazione alberghiera. Cena con tofu, riso bianco e verdure, viande de boeuf per il nostro chaffeur. A seguire beviamo due birrette fresche ed un'aranciata navigando con una rete wi-fi allacciata all'occorrenza dalle simpatiche cameriere sinoliberiane mentre su un televisore al plasma scorre una pellicola (cinese) che sembra non dover finire mai. Pur essendo pieni di situazioni improbabili ed attori di dubbia qualità, per qualche assurda ragione questi film riescono ad incollarti allo schermo. Fino a quando si rinsavisce e ci si pone la domanda: «ma cosa diavolo sto guardando?», ritrovando al contempo negli oggetti, nelle abitudini e nell'arredamento molti piccoli indizi della cultura cinese esportata in Africa (e non solo).

Foto: "Piccoli incidenti di percorso" by Ntwari J. Pascal


17 febbraio 2014

Presentazione personale al team con cui lavoreremo nel nostro nuovo bureau OCPH. Piccola scoperta del mondo dei generatori e dei piccoli gruppi elettrogeni con il nostro nuovo elettricista di fiducia in loco. Duecento errori nel campo degli assegni bancari, una visita alla banca per ritirare i soldi con cui poter cominciare a vivere autonomamente pensando in franchi guineani ed ancora fotocopie, firme e timbri. Pranzo alla mensa UNCHR al modico prezzo di 20000 FRG (poco più di due euro) a base di pollo gigantesco, mezzo chilo di riso e salsa piccante con fagioli. Nel pomeriggio tour tra i progetti in corso tutti al femminile divisi tra saponificazione ed agricoltura, immersi in una vita comunitaria che rappresenta ben più del tentativo di sormontare grossi problemi passati e quotidiani. La donna più anziana ci dedica un ballo tradizionale accompagnata da secchi per il lavaggio in alluminio, maracas con semi di caffè e coro di giovani voci. Il suo sguardo penetrante, i suoi movimenti decisi, eleganti e carichi di una sorta di autorità, uniti ai suoi due incisivi in oro, sono qualcosa di veramente spettacolare cui assistere. Alla fine del piccolo cerimoniale ci vengono donate delle noci di cola (con alcune banconote accartocciate), frutto tropicale dagli effetti stimolanti simbolo dell'accoglienza familiare oltre che di benvenuto. In qualsiasi momento, da ora, ci è concessa la visita informale e potremo contare sul loro supporto. Qualche foto di gruppo, un tour per la città in compagnia del nostro chauffeur di fiducia e l'acquisto di una baguette in una piccola boutique di quartiere africanamente sgangherata. Una corsa in giardino, una doccetta ed una pioggia torrenziale che si abbatte senza sosta per ore ed ore. Per cena uno strabiliante filettino al pepe chez Aida, un documentario di History Channel e tutti a nanna presto per la gitarella di domani.

Foto per gentile concessione Michel "qui va courir" Pascal.

18 febbraio 2014

7 in punto. Comincia la gitarella verso Gouécké e l'ospedale medico chirurgico CMC passando per una strada piena di enormi voragini riempitesi di acqua gialla stagnante dopo la lunga pioggerellina (così riferiscono i locali) di ieri notte. Una sorta di piccola traversata/Parigi-Dakar, capace di mettere alla prova anche gli stomaci più resistenti (oltre che gli ammortizzatori di migliore qualità). Alcune foto alle bancarelle del mercato locale, alle commercianti fuori dalla struttura ospedaliera che spiccano per la proposta di insetti fritti con olio di palma ed una visita all'allevamento di maiali nonché agli ettari di palme dalle cui bacche viene estratto il famoso liquido rosso qui usato per condire qualsiasi cosa. Una presentazione del lavoro svolto al CMC e poi dritti dritti a mangiare un favoloso pranzo dalla gentile Seour superiora della cittadina. Quest'ultima ha la geniale idea di offrirci Martini Rosso e Vermuth per farci rivivere alcuni sapori italiani che cominciano a mancare dai nostri palati. Il ritorno a N'zérékoré nel primo pomeriggio si rivela un interminabile bis della piccola traversata cui seguono le commissioni al supermercato (la padrona ci fa un sorriso simile al gatto di Alice in Worderland non appena vede il nostro conto da fatturare) ed al marché locale dove acquistiamo le spezie utili alla preparazione di un "risotto italiano" - una piccola impresa a costo elevato -. Riassunto contabilità, caldo umido della sera e fallito tentativo di un contatto col mondo via wifi. On va attendre...

Foto per gentile concessione Miguel Ntwari Pascal