Una lunga giornata è
alle porte. Il cleaning day sarà
la nostra prima partecipazione attiva alla vita rwandese,
improvvisandoci volontari senza caschetto coloniale per la pulizia di
strade ed edifici dismessi. Kai e compagna ci preparano la colazione
con paninetti alla nutella e caffè, gentilissimi come sempre ed
onore del Sol Levante in Rwanda. Per ripagarlo la sfortuna vuole che
si crei un pasticcio con lo scarico del bagno, ma sono le 9 e Kai
stesso ci dice che dobbiamo scappare da Taru sbrigando per noi il
disastro. Ah, il Giappone!
Appuntamento
con Taru davanti alla prigione dei criminali responsabili del
genocidio, luogo allegro per potersi incontrare. Poco distante un
prato pieno di erbacce e terra rossa con 10-15 persone intente ad
estirpare, ripulire, riqualificare secondo le direttive del governo
rwandese atto a creare partecipazione e cooperazione tra gli abitanti
dello stato rwandese. “to awake, not stay sleeping”, recita il
director che a fine
lavori dirige la piccola riunione con i cittadini che arrivano sin
dalle campagne per spirito d'unione. Se il lavoro è semplicemente
togliere erbacce, il significato simbolico è molto più ampio e
sentito. Nota di lode alla grottesca comicità involontaria dei
rwandesi che si propongono di ripulire e ricominciare usando proprio
il machete.
Una
giovane figlia di un pastore parlante ben due lingue straniere sembra
essere lo specchio delle speranze future di un intero paese, attenta,
simpatica e disponibile ad aiutarci nei nostri progetti. In un attimo
si crea un network di persone pronte ad aiutarci, con le quali
prometto di scambiare le foto che ho scattato durante il loro
incontro mensile. A fine evento camminiamo con loro chiacchierando
del più e del meno mentre ci indicano la via per la sistemazione che
stavamo cercando in un convento very cheap,
ma che si rivelerà aperto solo a donne nonostante diverse
contrattazioni. In cinque minuti salta fuori l'offerta di una casa
disponibile per un mese, sempre conveniente, ma più lontana dal
centro seppur comoda per raggiungere il KIE e l'Università. Le
sister acts vengono
subito accantonate per dirigerci con Gonzaloh -ascoltando a palla un
disco di Avril Lavigne- a vedere una casa in stile
“questa-è-per-ricchi-turisti”, dove una simpatica signorona
dedita ad affari ci mostra i suoi possedimenti “à louer”, ovvero
una indipendente abitata da lei ed un'altra costruzione gemella ma
del tutto vuota e piena di polvere rossa aleggiante nell'aria.
Marianne,
la nostra nuova forse-affittatrice, parla francese con dei kenyoti
che le hanno offerto una cifra doppia la nostra per avere tutto in
blocco e con cui non abbiamo alcuna possibilità di competere
economicamente. Non ci resta che aspettare una sua risposta mentre i
nostri intermediari traducono dall'inglese e francese alla lingua
bantu locale. Ci
facciamo riportare da Kay attraverso strade sabbiose e piene di buche
che confluiscono sull'unica grande statale asfaltata che taglia la
città. Dal nostro japanese friend ci
togliamo le scarpe per le ciabatte plasticose ma dopo 5 minuti
riusciamo folgorati dalla guida del Rwanda che ci indica altre
offerte tra ostelli, church accomodation
e improbabili alberghi recensiti malissimo. Usciamo a vagliare tutte
le proposte di persona, ma non prima di avere assaggiato 4 Sambussa
di carne e verdura -tipo involtini primavera triangolari fritti,
molto fritti- per 1000franchi rwandesi, un euro e qualcosa.
Passiamo
per l'EERGM, Kigali Guest Home, La Vedette, La Grace Hotel, les
soeurs Bernardines, valutando prezzi e valute più o meno favorevoli
per deux peuvre étudiantes.
Giriamo a piedi tra le mototaxi ed i bus bollati, colorati e colmi di
persone della cooperativa trasporti rwandese, che sfrecciano senza
curarsi delle vite umane per le strade di Kigali sclacsonando a più
non posso tra i pedoni. Tutto attorno piccole attività con insegne
disegnate sui muri a mano, riproducenti insegne e marche occidentali
di vestiti, elettrodomestici e tutto ciò che questi negozietti di
fatto non vendono.
Gli
sguardi incuriositi e raramente molesti di chiunque ci accompagnano
facendo sentire noi la
parte esotica del mondo, mentre donne domandano l'argent
senza alcuna remora ed altri
ridacchiano semplicemente tra di loro. Ad ogni angolo di strada
sbucano militari armati che sorvegliano la città e ciclicamente
passano le camionette che ricambiano gli uomini dal loro posto di
guardia.
Torniamo
sulla via principale passando a fianco la moschea più brutta del
mondo, Nyamirambo Mosque, con le due cupole tinteggiate di un
orribile verde pastello e le pareti laterali simili ad una piscina
comunale. Dopo aver goduto della Moschea Blu di Istanbul, Allah si è
forse lasciato sfuggire qualcosa?
Il viaggio di ritorno lo facciamo a piedi, in mezzo gruppetti di
persone che ci fissano come marziani colmi di denaro: c'è chi si
improvvisa taxista, chi vuole venderti schede di ricarica telefonica,
chi semplicemente vuole guardarti e forse disprezzarti perchè hai
troppo e loro sempre troppo poco. Seguendo la via notiamo un cartello
che recita ADEPR, che sta in sintesi per unioni delle chiese
pentecostali in rwanda...l'oggetto della mia ricerca antropofagica,
il luogo dei ritrovi dei matti col dono delle lingue, guarigioni
miracolose, sbavanti (come ricorda il dorigotti), etc.!
Seguiamo l'indicazione e, Dio ci aiuti nei prossimi giorni, finiamo
in una via di terra rossa battuta, attraversata da galline, bambini
mezzi vestiti, vecchie dallo sguardo diffidente per gli stranieri e
giovani intenti a dirci due parole spiccicate in inglese per guidarci
a destinazione.
Sembra
strano ritrovarsi in tale miseria e sporcizia facendo solo due passi
lontani dalla via principale, che di certo non è tirata a lucido ma
che è del tutto accettabile. Sembra infine stranamente ad
hoc una chiesa dal forte potere
carismatico in tale mancanza di mezzi primari di sussistenza, dove è
lo Spirito Santo che paga le bollette e da un senso ad una vita così
grama.
Arrivati alla porta di una baracca-chiesa, chiediamo informazioni a due
giovani che ci fanno da intermediari, mentre bambini affascinati ci
guardano e toccano i cappelli della Dorigotti spazientita e risentita
da quelle manine che le vorrebbero strappare il cuoio capelluto per
souvenir di donna
bianca e ricca. Prendiamo
due numeri di telefono dell'assente Pastore dal gran potere
carismatico, evidente già solo nelle parole e nello sguardo di chi
ce ne parla. Torneremo domani o mercoledì in questo posto che più
antropologico di così si muore. Tornando su per la salita verso la
strada principale mi rendo conto dell'imprudenza a dirigerci in tale
posto, ma lo spirito di Remotti ci protegge dall'alto insieme ad un
gran bel culo e alla necessità di dover fare questa fuckin'
thesis, at all.
Torniamo
infine a casa dopo venti minuti di cammino, dove siamo ben felici di
riposarci mentre Kai ci dice preoccupato: “va bene se mangiamo alle
sei?”; e noi con sguardo da leoni a stecchetto: “si, grazie
mille, è ok!”. Ed è così che ci sforna una dozzina di Osaka
Pizza che mi tengo dal definire uguali identiche ad una nostra
frittata un po' carica, ma comunque molto buone e spazzolate dai
piatti. Irene regala al Giappone e al mondo la sua abilità di
eccellente utilizzatrice di bacchette uscendo da un film di Kurosawa
in versione centro-africana. Mentre mostriamo ai nostri Jap
Friends foto dell'Italia e
beviamo il thè turco che gli abbiamo donato al nostro arrivo
-servito in pacchianissimi bicchierini-, ci buttiamo nell'arte
paziente dell'origami collezionando
4 cigni di carta marroncina. Riusciamo a contattare Ilaria con i
nostri numeri afriga-afrigani e riceviamo finalmente risposta per la
casa che abbiamo in trattativa, ricevendo buoni esiti che ci
appresteremo a concretizzare domani.
In
tarda serata la Dorigotti esplode in risa isteriche causate
dall'abuso di Bio Killer versus mosquitos e si isola sul pianerottolo
scrivendo un racconto breve in stato malarico e gravemente hipster
con Bon Iver a tutto volume. Parliamo con Bikkhu Favre on skype e a
seguire le palpebre calano come saracinesche pesanti quintali sui
nostri occhietti spenti.
Direi che il cambio ci è favorevole. Almeno nella quantità di carta.
Direi che il cambio ci è favorevole. Almeno nella quantità di carta.
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