La sveglia suona alle
sette. Primo obiettivo è preparare una tazza di Nescafè,
masterizzare dei cd, fare la copia di alcuni dati importanti, uscire
di casa a razzo per rilegare i fascicoli e consegnare il tutto al
Ministero. Il motard mi
aspetta impaziente ma una volta che il mio plico è giunto a
destinazione posso risalire in sella verso Nyabugogo,
dove giungo in ritardo a causa di ulteriori piccole domande durante
la consegna del materiale. Il cellulare non riconosce stranamente la
mia sim, non posso
avvertire dell'imprevisto e, morale della favola, si prende il bus
delle 9.30 aggiungendo pure una colazioncina nei piccoli locali della
stazione dei bus. Sul trabicolo Toyota
da 24 posti capito nel posto peggiore, quello di fianco l'uscita:
alza me, alza lo zaino mio e dei ragazzi tedeschi, apri la porta con
una sicura del tutto farlocca, risiediti e così via per 6 fermate e
3 ore di viaggio. Ovviamente, lo schienale è rotto e la signora di
fianco puzza di sudore. Sulla strada incontriamo anche dei controlli
di polizia di dubbia utilità, mentre penso che viaggiare in Africa è
tanto bello quanto unconfortable.
Dopo due ore e mezzo ecco spuntare il Lake Kivu in lontananza: un
mare che si perde all'orizzonte, dolce e ricco di gas metano,
circondato da colline e con un enorme vulcano in lontananza, oltre
Goma, oltre il confine così vicino col Congo.
Arrivati
alla stazione dei bus incontriamo la pétite amie
di K. con la quale contrattiamo il prezzo per un alberghetto a 6000
rwf a notte ed in seguito facciamo pranzo con un insoddisfacente
pesce preso dal Kivu e buttato intero direttamente sulla griglia (del
tutto diverso dal gigante capitaine del
lago Vittoria che mangiammo a Kigali). Aspettiamo un'ora per avere
anche delle patate fritte, mais c'est normal.
La pioggia si avvicina, feroce come il vento che si alza tirandoci
negli occhi granelli di sabbia irritanti e soffocanti, in cerca di un
ATM che non sia fuori servizio (risolvendo solo après
mezz'ora con una BK dopo diversi giri, ritorni a casa, mototaxi e
discese dello spirito della buona volontà).
Attendendo
K. ci dirigiamo al lago per dare un'occhiata al tramonto, esser colti
da un enorme temporale e dallo sbalzo di temperatura non appena il
sole se n'è andato a nanna. Ci reincontriamo per tornare a godere di
una doccia in albergo e poi dritti a mangiare brauchette di
carne in un locale di musica dal vivo dove assistiamo alle sculettate
danzanti à la congolaise di
alcuni ragazzi che farebbero gola ad “Amici di Maria de Filippi”.
Ci dirigiamo verso il lago a piedi, una traversata fino ed oltre il
Kivu Serena Hotel con visita alla frontiera, tanto facile da passare
per i residenti quanto difficile per muzunghi sprovvisti
di visto come me. Poco male, dall'altra parte c'è Goma ed i suoi tre
morti ammazzati -come riferitoci in diretta da tre ragazze tornate
dal Congo-. "Direi di rimanere in Rwanda, no problem
guys", ripeto con K. scherzando
per sdrammatizzare sull'argomento.
Si
ritorna indietro verso casa omettendo un deserto White Horse con
entrata a duemila franchi rimpiazzato dal danzerino Galaxy per birra,
salti sul posto ed improbabili vecchiette scatenate in pista.
Flotte di mototaxi-spilla-soldi aspettano nel cuore della notte i
clienti desiderosi di tornare a casa. La stanchezza del viaggio si fa
sentire: chapati,
chiacchiere senza luce ed il più totale black-out.
Così l'orologio corre e le palpebre si chiudono.
Comincia il diluvio, si corre al riparo. Foto Maichi Ntwari Pashcal.
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