Talvolta si deve guardare una cartina e, per puro intuito, buttarsi a
capofitto senza conoscere nulla di un quartiere. Può essere una scelta
vincente. Lo è stato oggi, quando guardando la pianta di Dakar
sottosopra mi sono detto: ”Plage de Yoff...perché no?". Oltre la Mosquée
Layène si stende a perdita d'occhio l'oceano, interrotto solo dalla
piccola omonima isola e dal lungomare che
si perde in lontananza. Lo si percorre a piedi nudi con il piacere
d'esser bagnati dalla cadenza regolare del riflusso, come solo i buoni
cooperanti esperti possono fare senza sembrare dei semplici turisti (ma
lunga è la strada d'apprendimento per noi, poveri mortali!).
L'immensa spiaggia dakaroise mi ricorda la chilometrica Copacabana, posta proprio dall'altro lato delle acque a mesi di navigazione. Le onde sono molteplici, si intersecano su tutti i lati, incrociandosi ed unendosi in una fitta trama che è difficile seguire; mille tsunami in miniatura disperdono la loro forza stendendosi dolcemente sulla lunghissima tavola di sabbia bianca, come una tovaglia tirata da una massaia esperta.
Proseguiamo verso l'île de Yoff incontrando un affascinantissimo panorama composto da piroghe dipinte, carretti trainati da cavalli per il trasporto del pesce, bambini che giocano a calcio e fanno la lotta libera in spiaggia, gruppi di pescatori che tirano le reti gettate non troppo lontano dalla riva, donne con secchi carichi che vanno su e giù per le mie inquadrature ma non vogliono apparire in fotografia, bellissime ragazze truccate con cura che sputano a terra da scaricatori di porto senza curarsi della mia presenza. Una spiaggia che è un mondo popolatissimo che «corre sulle spiagge atlantiche seguendo il calcio di un pallone, per finire nel grembo di grosse mamme antiche dalla pelle marrone», direbbe Qualcuno. Forse, in fondo, quell'«Anima Latina» che brucia il petto dei brasiliani appartiene anche a questi senegalesi pescatori e uomini di mare.
È il momento giusto, finalmente le reti tirate da decine di persone arrivano sulla spiaggia. Scenario grandioso quasi quanto una novella di Verga letta da Carmelo Bene: i bambini fermano i pesce siluro (che siano proprio loro?) liberandoli da cartacce e sacchetti; gli uomini spezzano le vertebre del collo dei poissons striati d'azzurro facendo leva sulle ginocchia; le donne riempiono i cesti, li appoggiano sulla testa e si dirigono verso le case poste oltre le piroghe che guardano l'oceano.
Mi butto a capofitto in mezzo le reti e la comunità al lavoro, scattando foto in uno di quei paradisi del reportage che raramente capitano sotto mano. Nessuno m'impedisce di documentare la scena, anzi tutti sembrano contenti del mio interesse per il loro lavoro. I bambini ci mostrano un enorme pescepalla scartato dalla pesca prima di rigettarlo in acqua - tenendolo senza troppa cura dalle branchie -, un granchio legato per una zampa, un riccio di mare insabbiato, con quella noncuranza infantile per la vita che li fa sembrare piccoli "Lord of the Flies" à la Golding.
Il sole comincia a scendere. Un taxi contrattato a buon prezzo e dritti verso la Plage de Hann in cerca del circolo dei velisti che, sempre ad intuito, dovrebbe avere un bel panorama e birra a prezzo modico. Dopo aver domandato se l'ingresso sia riservato ai soli soci, ricevuta l'accogliente risposta «pas de problème, venez-vous!», ecco che troviamo proprio ciò che ci aspettavamo. Un grosso bancone in legno con bottiglie di qualità in quantità, dipinti con barche a vela, balene e capodogli, un vecchio timone ed attrezzatura di bordo come arredamento, una piccola bibliotechina a tema sulla navigazione (atlanti illustrati compresi), un gruppo di marinai che calcola delle rotte con un gps, tavolini bassi pieni di sigarette spente, una cameriera silenziosa che ci porge due Flag in bottiglia ghiacciate con arachidi. Un simpatico francese di Toulouse-Paris-Dakar, sposato con una congolese, attacca bottone domandandoci se «siamo oppure no dei veri navigatori». Essendo la nostra risposta negativa, gli ricordo che in quanto italiani abbiamo comunque un'antica progenie che passa da Cristoforo Colombo a...«Marco Polo!» - interviene JeJe (questo il nome del marinaio) - «si, non proprio...ma quasi!», rispondo dubbioso. Siamo, ovviamente, invitati a mangiare al suo ristorante congolaise per gustare le specialità preparate da sua moglie. Mentre l'ennesimo gatto ruffiano mi gira attorno, miagolando come i venditori ambulanti che raccontano senza posa le storie di alcuni parenti che vivono in Italia (mostrando al contempo la solita merce per turisti), mi domando come debba essere vivere in una di quelle barche ormeggiate...solo per mesi nell'intento di attraversare un pezzo di Oceano in balia dei venti e delle maree, dalla Bretagna alla Spagna al Senegal, con un gps ed un carico di pazienza sovra-umana nella stiva (questi gli itinerari narratici).
Si conclude così un bello, inaspettato pomeriggio dakaroise. Colonna visiva/sonora consigliata: la coda strumentale di "Anima Latina" in loop, intervallata da spezzoni del film "Brazil" di Terry Gilliam.
Foto: "Pescepalla, mademoiselle?" by Ntwari J. Pascal
L'immensa spiaggia dakaroise mi ricorda la chilometrica Copacabana, posta proprio dall'altro lato delle acque a mesi di navigazione. Le onde sono molteplici, si intersecano su tutti i lati, incrociandosi ed unendosi in una fitta trama che è difficile seguire; mille tsunami in miniatura disperdono la loro forza stendendosi dolcemente sulla lunghissima tavola di sabbia bianca, come una tovaglia tirata da una massaia esperta.
Proseguiamo verso l'île de Yoff incontrando un affascinantissimo panorama composto da piroghe dipinte, carretti trainati da cavalli per il trasporto del pesce, bambini che giocano a calcio e fanno la lotta libera in spiaggia, gruppi di pescatori che tirano le reti gettate non troppo lontano dalla riva, donne con secchi carichi che vanno su e giù per le mie inquadrature ma non vogliono apparire in fotografia, bellissime ragazze truccate con cura che sputano a terra da scaricatori di porto senza curarsi della mia presenza. Una spiaggia che è un mondo popolatissimo che «corre sulle spiagge atlantiche seguendo il calcio di un pallone, per finire nel grembo di grosse mamme antiche dalla pelle marrone», direbbe Qualcuno. Forse, in fondo, quell'«Anima Latina» che brucia il petto dei brasiliani appartiene anche a questi senegalesi pescatori e uomini di mare.
È il momento giusto, finalmente le reti tirate da decine di persone arrivano sulla spiaggia. Scenario grandioso quasi quanto una novella di Verga letta da Carmelo Bene: i bambini fermano i pesce siluro (che siano proprio loro?) liberandoli da cartacce e sacchetti; gli uomini spezzano le vertebre del collo dei poissons striati d'azzurro facendo leva sulle ginocchia; le donne riempiono i cesti, li appoggiano sulla testa e si dirigono verso le case poste oltre le piroghe che guardano l'oceano.
Mi butto a capofitto in mezzo le reti e la comunità al lavoro, scattando foto in uno di quei paradisi del reportage che raramente capitano sotto mano. Nessuno m'impedisce di documentare la scena, anzi tutti sembrano contenti del mio interesse per il loro lavoro. I bambini ci mostrano un enorme pescepalla scartato dalla pesca prima di rigettarlo in acqua - tenendolo senza troppa cura dalle branchie -, un granchio legato per una zampa, un riccio di mare insabbiato, con quella noncuranza infantile per la vita che li fa sembrare piccoli "Lord of the Flies" à la Golding.
Il sole comincia a scendere. Un taxi contrattato a buon prezzo e dritti verso la Plage de Hann in cerca del circolo dei velisti che, sempre ad intuito, dovrebbe avere un bel panorama e birra a prezzo modico. Dopo aver domandato se l'ingresso sia riservato ai soli soci, ricevuta l'accogliente risposta «pas de problème, venez-vous!», ecco che troviamo proprio ciò che ci aspettavamo. Un grosso bancone in legno con bottiglie di qualità in quantità, dipinti con barche a vela, balene e capodogli, un vecchio timone ed attrezzatura di bordo come arredamento, una piccola bibliotechina a tema sulla navigazione (atlanti illustrati compresi), un gruppo di marinai che calcola delle rotte con un gps, tavolini bassi pieni di sigarette spente, una cameriera silenziosa che ci porge due Flag in bottiglia ghiacciate con arachidi. Un simpatico francese di Toulouse-Paris-Dakar, sposato con una congolese, attacca bottone domandandoci se «siamo oppure no dei veri navigatori». Essendo la nostra risposta negativa, gli ricordo che in quanto italiani abbiamo comunque un'antica progenie che passa da Cristoforo Colombo a...«Marco Polo!» - interviene JeJe (questo il nome del marinaio) - «si, non proprio...ma quasi!», rispondo dubbioso. Siamo, ovviamente, invitati a mangiare al suo ristorante congolaise per gustare le specialità preparate da sua moglie. Mentre l'ennesimo gatto ruffiano mi gira attorno, miagolando come i venditori ambulanti che raccontano senza posa le storie di alcuni parenti che vivono in Italia (mostrando al contempo la solita merce per turisti), mi domando come debba essere vivere in una di quelle barche ormeggiate...solo per mesi nell'intento di attraversare un pezzo di Oceano in balia dei venti e delle maree, dalla Bretagna alla Spagna al Senegal, con un gps ed un carico di pazienza sovra-umana nella stiva (questi gli itinerari narratici).
Si conclude così un bello, inaspettato pomeriggio dakaroise. Colonna visiva/sonora consigliata: la coda strumentale di "Anima Latina" in loop, intervallata da spezzoni del film "Brazil" di Terry Gilliam.
Foto: "Pescepalla, mademoiselle?" by Ntwari J. Pascal
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